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61998C0196

Conclusioni dell'avvocato generale Saggio del 12 ottobre 1999. - Regina Virginia Hepple contro Adjudication Officer e Adjudication Officer contro Anna Stec. - Domanda di pronuncia pregiudiziale: Social Security Commissioner - Regno Unito. - Direttiva 79/7/CEE - Parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di previdenza sociale - Prestazioni nell'ambito di un regime di assicurazione infortuni sul lavoro e malattie professionali - Introduzione di un nesso con l'età pensionabile. - Causa C-196/98.

raccolta della giurisprudenza 2000 pagina I-03701


Conclusioni dell avvocato generale


1 La presente causa pregiudiziale ha per oggetto l'interpretazione della direttiva 79/7/CEE del Consiglio, del 19 dicembre 1978, relativa all'attuazione progressiva del principio dell'eguaglianza di trattamento tra uomini e donne in materia di sicurezza sociale (1) (in seguito: la «direttiva»). La questione centrale che l'organo remittente, il Social Security Commissioner del Regno Unito, sottopone alla Corte riguarda la facoltà degli Stati membri di disciplinare una prestazione in materia di sicurezza sociale introducendo, con riferimento alle prestazioni di invalidità, una differenza di trattamento tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile in relazione alla diversa età di pensionamento.

Quadro giuridico

Normativa comunitaria

2 Scopo della direttiva, come enuncia il suo art. 1, «è la graduale (2) attuazione (...) del principio della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di sicurezza sociale». Tale principio comporta, come stabilisce l'art. 4, n. 1, il divieto di «discriminazione direttamente o indirettamente fondata sul sesso, (...) specificamente per quanto riguarda: (...) il calcolo delle prestazioni (...) nonché le condizioni relative alla durata e al mantenimento del diritto alle prestazioni». Un trattamento differenziato si considera tuttavia giustificato in base all'art. 7, n. 1, lett. a), della direttiva, nel quale si prevede che questa «non pregiudica la facoltà degli Stati membri di escludere dal suo campo di applicazione: a) la fissazione del limite di età per la concessione della pensione di vecchiaia e di fine lavoro e le conseguenze che possono derivarne per altre prestazioni». All'art. 5 si prevede poi che «gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché siano soppresse le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative contrarie al principio della parità di trattamento». Gli Stati membri, dispone il successivo art. 8, n. 1, mettono in vigore tali disposizioni nel termine di sei anni a decorrere dalla notifica. Si prevede infine, al n. 2 dell'art. 7, il riesame periodico da parte degli Stati membri delle materie escluse ai sensi della detta disposizione, per stabilire se tali esclusioni continuino ad essere giustificate e debbano pertanto essere mantenute. Sempre secondo questa logica, all'art. 8, n. 2, si prevede che gli Stati membri informino la Commissione dei motivi che giustifichino l'eventuale mantenimento, nei rispettivi ordinamenti, delle disposizioni «esistenti nelle materie di cui all'articolo 7, paragrafo 1 e delle possibilità di una loro ulteriore revisione».

Normativa del Regno Unito

3 In base alla legge sulla sicurezza sociale del 1975 in Gran Bretagna è stata corrisposta, fino al 1986, una prestazione denominata Special Hardship Allowance (in seguito: «SHA»; assegno per difficoltà particolari) ai lavoratori che avevano subito un incidente sul lavoro con conseguente riduzione della loro capacità lavorativa.

4 Con il Social Security Act del 1986 l'SHA è stato sostituito da un'altra indennità denominata Reduced Earning Allowance (in seguito: «REA»; assegno per riduzione del reddito). Questa nuova indennità è di importo pari alla differenza fra il reddito da lavoro che l'interessato realizzava con la sua attività lavorativa prima dell'incidente e quello che il medesimo era in grado di produrre dopo l'incidente. Il REA ha, infatti, la funzione di risarcire il lavoratore della diminuzione di reddito che l'incidente gli ha cagionato.

5 Con modifiche legislative diverse introdotte dopo il 1986, il legislatore del Regno Unito ha cercato di circoscrivere la corresponsione del REA alle sole persone in età lavorativa, in maniera da utilizzare questo strumento per compensare la diminuzione del reddito da lavoro derivante dall'invalidità. A questo scopo, vale a dire per non attribuire ai lavoratori che hanno cessato la loro attività sia la pensione che il REA integrale (ciò che non sembrava coerente con la funzione di queste prestazioni destinate entrambe a supplire la perdita di reddito da lavoro), esso è intervenuto sull'ammontare del REA imponendo delle condizioni limitative collegate alle diverse età previste a seconda del sesso per il collocamento a riposo nel regime pensionistico.

6 Il sistema di sicurezza sociale del Regno Unito, la cui compatibilità con l'ordinamento comunitario, e in particolare con la citata direttiva 79/7 del 1978, è oggetto di contestazione nel presente procedimento pregiudiziale, prevede, nelle sue linee essenziali, che le persone che sono state vittime di un incidente sul lavoro o hanno contratto una malattia professionale, che sono andate in pensione tra l'aprile del 1987 e l'aprile del 1989 e che, prima del pensionamento, ricevevano il REA nel suo importo integrale, ricevano invece il REA di importo «congelato», riferito cioè a una certa data e non suscettibile di variazione in relazione ai successivi aumenti annuali del costo della vita (3). Prevede altresì che le persone che sono andate in pensione in epoca successiva, e cioè dopo l'aprile 1989, ma che per il resto si trovano nelle stesse condizioni della prima categoria perdano il diritto al REA e ricevano, in presenza di determinati presupposti, una indennità denominata Retired Allowance (in seguito: «RA»), di importo inferiore a quello del REA «congelato». La RA, che ha carattere vitalizio, è pari al 25% dell'importo settimanale del REA cui da ultimo il beneficiario aveva diritto oppure al 10% dell'ammontare massimo di una pensione di invalidità (4).

7 Quanto all'età a cui i lavoratori vanno in pensione in Gran Bretagna, il sistema è caratterizzato dalla flessibilità. Una persona che ha cessato di svolgere un'attività lavorativa normale può infatti scegliere in che momento andare in pensione nei cinque anni successivi al raggiungimento dell'età della pensione, che è di 65 anni per gli uomini e di 60 per le donne (5). Una persona che non ha fatto la scelta in quest'arco di tempo si considera essere andata in pensione a 70 anni se uomo e a 65 se donna.

8 La previsione di un'età diversa secondo il sesso per l'andata in pensione fa sì che la perdita del diritto al REA e la sostituzione di questa con il REA di importo ridotto o con un'indennità di importo sensibilmente inferiore quale la RA si verifichino in momenti diversi per le donne e per gli uomini.

Fatti e procedimento

9 Le cinque controversie cui si riferisce l'ordinanza di rinvio riguardano le modalità di calcolo dell'assegno per invalidità e precisamente l'incidenza della diversa età del pensionamento di uomini e donne sulla determinazione dell'importo dell'anzidetto assegno e, correlativamente, sul principio dell'eguaglianza di trattamento delle persone di sesso diverso. Qui di seguito si riassume brevemente il contesto di ciascuna di queste controversie, come risulta dall'ordinanza di rinvio.

10 La signora Spencer, nata nel 1926, avendo subito un incidente sul lavoro, ha percepito l'SHA e poi la REA a partire dal 1967. Ella ha scelto di ricevere il trattamento pensionistico a decorrere dal 23 dicembre 1986, cioè a decorrere dalla data di compimento dei 60 anni di età. L'autorità competente le ha comunicato che, in base all'art. 12 dell'allegato 7 del Social Security Contributions and Benefits Act del 1992, poteva ricevere il REA solo nell'importo «congelato». Su ricorso dell'interessata, il giudice competente per le controversie in materia di sicurezza sociale ha annullato questa decisione e le ha riconosciuto il diritto di ricevere il REA nella sua integrità, in tal senso argomentando dal rilievo che un lavoratore di sesso maschile, nato anch'egli nel 1926, nelle stesse condizioni avrebbe avuto diritto di ricevere l'indennità nella misura intera fino a 65 anni. Contro tale decisione il competente ufficio della sicurezza sociale proponeva appello, insistendo nell'affermare che alla signora Spencer poteva essere corrisposta solo il REA di importo ridotto. La signora Spencer sosteneva invece che, in base alla direttiva, ella aveva diritto di ricevere l'integralità della prestazione fino al compimento dei 65 anni, ché altrimenti sarebbe stata discriminata rispetto ai lavoratori di sesso maschile. In altri termini, ella contestava la compatibilità con il diritto comunitario della modifica legislativa in virtù della quale il REA era stata ridotta ad un importo fisso, facendo valere che nella sua stessa situazione una persona di sesso maschile avrebbe conservato il diritto di ricevere tale prestazione nel suo importo integrale.

11 La signora Hepple, nata nel 1933, avendo contratto una malattia professionale, ha ricevuto il REA dal 27 gennaio 1987. Tale prestazione veniva ridotta a partire dal 31 marzo 1996 per il fatto che a questa data ella aveva un'età superiore ai 60 anni e aveva cessato di esercitare un'attività lavorativa. Su ricorso dell'interessata, che reclamava il pagamento del REA nel suo importo integrale invocando il principio della parità di trattamento senza distinzione di sesso, il giudice competente confermava il rifiuto dell'amministrazione. Contro questa decisione proponeva appello la signora Hepple, facendo valere che per il principio della parità di trattamento l'indennità in questione non poteva venire ridotta prima che ella avesse raggiunto i 65 anni, cioè l'età del pensionamento degli uomini.

12 La signora Stec, nata nel 1933, essendo rimasta vittima di un incidente sul lavoro, ha ricevuto il REA dal 1990. Tale indennità veniva ridotta a decorrere dal 31 marzo 1996 per il fatto che a questa data ella aveva più di 60 anni e non svolgeva un'attività lavorativa. Su ricorso dell'interessata il giudice competente annullava la decisione dell'autorità amministrativa e riconosceva alla ricorrente il diritto di ricevere il REA nel suo importo integrale fino all'età di 65 anni, cioè fino al raggiungimento dell'età pensionabile degli uomini. L'amministrazione faceva appello contro questa pronuncia.

13 Le ricorrenti signore Hepple e Stec contestano dunque, essenzialmente, la legittimità comunitaria della modifica legislativa in forza della quale il REA è stata sostituita da una diversa indennità di importo fisso ed inferiore, facendo valere che, a parità di condizioni, la modifica peggiorativa del trattamento si produceva prima per una donna che per un uomo.

14 Il signor Lunn, nato nel 1923, essendo rimasto vittima di un incidente, ha percepito l'SHA e poi il REA a partire dal 12 maggio 1974. Egli ha ricevuto per la prima volta la pensione di vecchiaia nel 1993, al compimento dei 70 anni di età. Il REA che gli veniva versata è stata ridotta all'importo della RA a partire dal 31 marzo 1996. Su ricorso dell'interessato il giudice competente confermava la decisione dell'amministrazione. Il signor Lunn impugnava tale pronuncia facendo valere che aveva diritto di ricevere per tutta la vita il REA di importo fisso, considerato che una donna della sua stessa età avrebbe ricevuto una tale prestazione a decorrere dal 1988.

15 Il signor Kimber, nato nel 1924, essendo rimasto vittima di un incidente sul lavoro, ha percepito, a partire dal 1982, prima l'SHA e poi il REA. Egli ha ricevuto la pensione di vecchiaia all'età di 70 anni, e cioè a decorrere dal 1994. Conseguentemente, il REA gli è stata ridotta all'importo della RA a far tempo dal 31 marzo 1996. Su ricorso dell'interessato il giudice competente ha annullato la decisione dell'amministrazione, riconoscendo al ricorrente il diritto di continuare a percepire il REA di importo integrale, considerato che una donna nelle sue stesse condizioni avrebbe beneficiato di tale maggiore indennità. Ed infatti una donna nata, come il signor Kimber, il 30 settembre 1924 la quale non avesse scelto di ricevere la pensione prima del 30 settembre 1994 avrebbe visto il suo REA ridursi all'importo della RA a partire dal 30 settembre 1989; ma, se avesse scelto invece di richiedere la pensione tra il 30 settembre 1988 e il 9 aprile 1989 (cosa che il signor Kimber non aveva avuto la facoltà di fare), avrebbe percepito a vita il REA di importo fisso.

16 I signori Lunn e Kimber contestano in sostanza il fatto che, non essendo stata loro attribuita il REA di importo fisso, cui invece a parità di condizioni avevano diritto nello stesso periodo le donne, l'importo che essi percepivano nel regime della RA era inferiore a quello che percepiva una donna che si trovava in una situazione corrispondente alla loro ed era pertanto da considerare illegittimo dal punto di vista del diritto comunitario.

17 Secondo la giurisdizione remittente, la questione centrale, comune a tutte e cinque queste controversie, è quella di stabilire se una normativa nazionale che preveda la corresponsione di una prestazione come il REA a persone di età troppo avanzata per svolgere la loro attività lavorativa costituisca un'anomalia così rilevante da giustificare la soppressione del REA ad età diverse per gli uomini e per le donne. Si tratta, in altri termini, di stabilire se una simile scelta legislativa sia o meno riconducibile all'eccezione contemplata all'art. 7, n. 1, lett. a), della direttiva.

18 Con riferimento al contesto fattuale e normativo sin qui descritto, l'organo remittente rivolge alla Corte i seguenti quesiti:

«1) Se l'art. 7 della direttiva del Consiglio 79/7/CEE consenta ad uno Stato membro di fissare condizioni diverse di età, collegate a quelle previste per il collocamento a riposo di uomini e donne nel regime delle pensioni di vecchiaia, come presupposto per accedere ad una prestazione del tipo della Reduced Earning Allowance (Assegno per riduzione del reddito) prevista dalla legislazione vigente nel Regno Unito in materia di infortuni sul lavoro e di malattie professionali e di dare vita in questo modo all'erogazione di assegni settimanali di importo diverso per uomini e donne che si trovano in condizioni sotto ogni altro profilo simili; e ciò in particolare quando la disparità di trattamento:

a) non è imposta da alcuna ragione finanziaria che riguardi i suddetti "regimi"; e

b) non è mai esistita in precedenza, essendo stata introdotta per la prima volta molti anni dopo l'entrata in vigore dei due "regimi" ed anche dopo il 23 dicembre 1984, data ultima per l'attuazione della direttiva ai sensi dell'art. 8.

2) Nel caso di risposta affermativa al primo quesito, quali elementi occorra prendere in considerazione per stabilire se l'età, diversa a seconda del sesso, prevista nella legislazione del Regno Unito a partire dal 1988-1989 come condizione per l'attribuzione dell'assegno di invalidità sia una condizione necessaria per assicurare la coerenza tra i regimi [rispettivamente della pensione e dell'assegno di invalidità] oppure ricada in altro modo tra le eccezioni [all'eguaglianza di trattamento] consentite ai sensi dell'art. 7.

3) Se, nel caso in cui tali diverse condizioni di età non rientrino tra le eccezioni consentite ai sensi dell'art. 7, la dottrina dell'effetto diretto imponga al giudice nazionale (in mancanza di una normativa nazionale di attuazione della direttiva) di correggere tale disparità di trattamento attribuendo ad ogni persona titolare di un assegno per riduzione del reddito una prestazione integrativa per ogni settimana in cui la somma corrisposta a questo titolo alla medesima in base alla legislazione nazionale risulti inferiore a quella attribuibile ad una persona che si trovi nelle medesime condizioni, ma sia di sesso diverso ("il soggetto di riferimento"), senza tener conto:

a) di qualsiasi vantaggio di segno inverso derivante allo stesso soggetto dal fatto di percepire, in altre settimane, una somma superiore rispetto a quella percepita per lo stesso titolo dal soggetto di riferimento, e/o

b) dell'esistenza o dell'esercizio, nell'ambito del regime pensionistico, di opzioni diverse, quanto all'inizio dell'età pensionabile, in ragione del sesso dei beneficiari della prestazione, opzioni che, combinate con i regimi differenziati previsti per l'assicurazione relativa agli incidenti sul lavoro e alle malattie professionali, comportano l'erogazione, a favore di un determinato soggetto, di prestazioni settimanali, che possono risultare di volta in volta più o meno vantaggiose rispetto a quelle erogate al soggetto di riferimento.

Oppure se occorra, invece, tener conto di questi elementi e, in tal caso, quali siano i principi da applicare nel dare effetto diretto all'art. 4».

Sul primo e sul secondo quesito

19 Premetto che tutte le parti sono d'accordo nel riconoscere che la legislazione britannica per cui è causa contrasta con il principio della parità di trattamento e che, pertanto, nella specie occorre solo stabilire se un tale contrasto sia giustificabile in base all'art. 7, n. 1, lett. a), della direttiva.

20 Con il suo primo quesito il giudice a quo vuol sapere se la previsione di età diverse per il riconoscimento del diritto al REA, parallelamente ad analoga previsione per l'età pensionabile, sia riconducibile entro il campo di applicazione della anzidetta disposizione, e ciò, in particolare, quando tale previsione non è imposta da esigenze finanziarie e non esisteva al momento dell'entrata in vigore della direttiva. Con il secondo quesito, che è strettamente legato al primo, il giudice a quo chiede, per l'ipotesi che al primo quesito si dia risposta affermativa, quali elementi occorra prendere in considerazione per sapere se la diversa età di pensionamento incida sul regime dell'assegno d'invalidità e se l'esigenza di assicurare la coerenza tra i due regimi o altre esigenze prese in conto dall'art. 7 possano giustificare eventuali discriminazioni nel regime delle prestazioni di invalidità. La risposta a questo secondo quesito è così strettamente legata alla risposta relativa al primo che mi sembra opportuno trattare i due quesiti in modo unitario.

21 Per ragioni di priorità logica va esaminata per prima quella parte del quesito che figura sotto la lett. b) e che concerne l'applicabilità alla deroga di cui all'art. 7, n. 1, lett. a), della regola dello standstill. Si tratta cioè, innanzi tutto, di stabilire se a stregua della direttiva gli Stati membri abbiano la facoltà di introdurre nuove discriminazioni collegate come effetto a causa alla diversa età di pensionamento, nuove nel senso che non sussistevano prima dell'entrata in vigore della direttiva. Se si riconosce che la direttiva contiene un'obbligazione di standstill, l'estensione della deroga va necessariamente limitata alle sole discriminazioni esistenti alla scadenza del termine di sei anni fissato per l'attuazione della direttiva, cioè alla data del 23 dicembre 1984. Accogliendo questa premessa, nella specie si dovrebbe escludere la legittimità delle discriminazioni tra uomini e donne esistenti nel regime dell'assicurazione contro l'invalidità, considerato che le disposizioni che le hanno introdotte per la prima volta nell'ordinamento britannico risalgono al 1986 e cioè ad una data successiva rispetto all'entrata in vigore della direttiva.

Per sorreggere la tesi secondo cui la deroga di cui all'art. 7, n. 1, lett. a), della direttiva deve essere interpretata alla luce della regola dello standstill, i ricorrenti e la Commissione fanno riferimento alla formulazione letterale delle pertinenti disposizioni della direttiva. Essi fanno valere che l'art. 7, n. 2, stabilendo che «gli Stati membri esaminano periodicamente le materie escluse ai sensi del n. 1 al fine di valutare se, tenuto conto dell'evoluzione sociale in materia, sia giustificato mantenere le esclusioni» che figurano nel detto paragrafo, lascerebbe intendere che gli Stati sono liberi di mantenere in vita le esclusioni ivi contemplate, ma non di introdurre ex novo ulteriori esclusioni tra quelle consentite. L'uso del termine «mantenere» e l'obbligo degli Stati di giustificare il «mantenimento» di tali disposizioni nei rispettivi ordinamenti accrediterebbero una tale tesi.

Anche l'art. 8, n. 2, seconda parte, della direttiva condurrebbe a questa interpretazione. Esso prevede che gli Stati membri «informano la Commissione dei motivi che giustificano l'eventuale mantenimento delle disposizioni esistenti (6) nelle materie di cui all'articolo 7, paragrafo 1, e della possibilità di una loro ulteriore revisione». Una tale formulazione dovrebbe essere interpretata nel senso che essa presuppone che la deroga di cui all'art. 7, n. 1, lett. a), valga soltanto per le discriminazioni esistenti al momento dell'entrata in vigore della direttiva. Già abbiamo visto che le discriminazioni oggetto della presente controversia sono state introdotte nell'ordinamento britannico nel 1986, mentre la direttiva, adottata nel 1978, doveva essere attuata, come ho già detto, entro il 23 dicembre 1984.

Tale interpretazione troverebbe poi conferma nella circostanza che la direttiva è caratterizzata dalla gradualità nell'attuazione dell'egualianza di trattamento, gradualità che implicherebbe necessariamente la temporaneità delle misure nazionali discriminatorie basate sull'art. 7, n. 1, la cui progressiva eliminazione costituirebbe, pur in presenza della deroga, il risultato che la direttiva si propone di conseguire. La gradualità nell'attuazione degli scopi della direttiva è espressamente indicata al suo art. 1. A questo riguardo la Commissione cita la sentenza Bramhill del 1994 (7), nella quale la Corte ha ritenuto conforme all'art. 7, n. 1, lett. d), della direttiva (che consente la concessione di maggiorazioni di talune prestazioni a lungo termine) la soppressione di una tale discriminazione compiuta per alcune donne ma non per tutte, per la considerazione che un provvedimento del genere, pur se non eliminava del tutto l'ineguaglianza di trattamento, aveva comunque il pregio di ridurre le discriminazioni inizialmente esistenti.

22 Non mi sembra che gli argomenti prospettati per avvalorare l'interpretazione riduttiva della deroga di cui all'art. 7, n. 1, lett. d), e conseguentemente la tesi dell'incompatibilità della legislazione inglese per cui è causa rispetto alla direttiva possano essere condivisi. Ciò per più considerazioni.

Occorre innanzi tutto tener conto del fatto che la regola dello standstill viene di massima enunciata in termini espressi. In questo modo, ad esempio, viene formulata nell'art. 37, n. 2, del Trattato CE (divenuto in seguito a modifica, art. 31 CE). Ora, nella direttiva esistono, come vedremo più avanti, soltanto degli indizi non privi di ambiguità circa la pretesa impossibilità di introdurre discriminazioni nuove, ma sicuramente non l'enunciazione della regola in termini trasparenti, come pure mi sembrerebbe indispensabile, considerato che si tratta di una regola che riguarda il campo di applicazione della direttiva e di cui quindi i soggetti interessati, essenzialmente i lavoratori, devono poter cogliere agevolmente l'esistenza e la portata.

Ogni incertezza tuttavia può essere superata se si considera che il n. 1 dell'art. 7, quando definisce gli spazi entro i quali gli Stati restano liberi di non applicare il principio della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di sicurezza sociale, si esprime in termini generali affermando che la direttiva «non pregiudica la facoltà degli Stati membri di escludere dal suo campo di applicazione» una serie di interventi discriminatori tra i quali si colloca anche la fissazione di un limite di età, diverso in ragione del sesso, per la pensione e le conseguenze che possono derivarne per altre prestazioni sociali. Tale disposizione, per il modo in cui è formulata, ha manifestamente portata generale, nel senso che consente agli Stati innanzi tutto la facoltà di escludere dal campo di applicazione del principio di eguaglianza talune forme di discriminazione adottando le relative disposizioni ed altresì, ed a maggior ragione, di conservare in vigore le stesse discriminazioni che eventualmente già esistevano al momento della sua entrata in vigore.

Non è pertanto giustificato ritenere che gli Stati possano intervenire nelle materie contemplate nel n. 1 dell'art. 7 soltanto per eliminare le discriminazioni esistenti o per ridurne la portata. Per sostenere una tale tesi non vale, a mio avviso, invocare il n. 2 dell'art. 7 ed il n. 2 dell'art. 8, che prevedono, come sappiamo, rispettivamente l'esame periodico delle materie escluse per stabilire se sia giustificato mantenere le esclusioni e l'obbligo per gli Stati d'informare la Commissione dei motivi che giustificano l'eventuale mantenimento delle disposizioni esistenti nelle materie di cui all'art. 7, n. 1. Non è pertinente il richiamo al n. 2 dell'art. 7, perché tale disposizione riguarda l'eventuale riduzione delle esclusioni previste nel suo n. 1 e non già la ricaduta delle stesse esclusioni negli ordinamenti interni. Neppure il richiamo al n. 2 dell'art. 8 è significativo, perché, se si interpreta il n. 1 dell'art. 7, come prima ho prospettato, tra le disposizioni esistenti vanno fatte rientrare non solo quelle già in atto al momento dell'entrata in vigore della direttiva, ma anche quelle adottate ex novo dopo tale data, dal momento che anche rispetto a queste ultime è previsto un obbligo di «informazione» della Commissione, obbligo cui si riferisce l'art. 8, n. 2, seconda parte.

Si aggiunga che, come fa notare la difesa del governo britannico, il n. 1 dell'art. 7 prevede alla lett. d) che gli Stati membri possono escludere dal campo di applicazione della direttiva le conseguenze risultanti dall'esercizio, «anteriormente all'adozione della (...) direttiva» (8) di un diritto di opzione in materia di sicurezza sociale; una tale previsione rende palese che, quando ha ritenuto necessario introdurre una limitazione del campo di applicazione della deroga, collegandola alla presenza di condizioni che dovevano essersi già realizzate prima dell'adozione della direttiva, il legislatore comunitario ha formulato la relativa disposizione in termini assolutamente chiari. Il legislatore comunitario avrebbe formulato le regole pertinenti in modo altrettanto trasparente se avesse voluto limitare la portata di tutte le esclusioni che figurano all'art. 7, n. 1, prevedendo in relazione ad esse un'obbligazione di standstill.

23 Queste essendo le regole di diritto comunitario derivato che vengono in considerazione, il richiamo allo standstill mi pare comunque non propriamente pertinente anche per una riflessione più generale. Occorre infatti considerare che la questione se esista o meno, in relazione a date regole di diritto secondario, un'obbligazione di standstill non si pone, per ovvie ragioni, quando c'è una previsione espressa in tal senso, ché in tal caso l'interprete è chiamato unicamente a definire il significato della disposizione limitativa espressa che deve applicare, diversamente da quando una simile disposizione manca. E' quest'ultima la caratteristica che contrassegna, in generale, le direttive e che ha indotto taluni ad affermare che esse produrrebbero, prima della scadenza del termine per la loro attuazione negli ordinamenti nazionali, l'effetto di bloccare la libertà degli Stati di emanare norme che potrebbero compromettere la successiva attuazione delle medesime (9). Ma il caso di specie non può essere ricondotto ad alcuna di queste due ipotesi, visto che nella direttiva per cui è causa figura una disposizione, il n. 1, dell'art. 7, che in termini espliciti riconosce agli Stati la facoltà di escludere determinate materie dal suo campo di applicazione.

Occorre altresì considerare che un'obbligazione di standstill può concepirsi solo quando il termine per l'attuazione della direttiva non è ancora scaduto (10). Ora, è pacifico che, nella specie, le nuove disposizioni britanniche sono state adottate dopo la scadenza del termine di sei anni per l'attuazione della direttiva, con la conseguenza che si versa al di fuori del quadro tipico di un'obbligazione di standstill derivante da una direttiva, obbligazione che è configurabile solo per il periodo antecedente alla scadenza del termine di attuazione della stessa. In una tale ipotesi infatti il contegno di uno Stato membro che non sia conforme agli obblighi nascenti a suo carico dalla direttiva non integra la violazione dell'obbligazione di standstill, bensì degli obblighi collegati direttamente al contenuto specifico della direttiva non attuata e/o a principi generali di cui la direttiva sia espressione.

24 Una volta pervenuti alla conclusione che non sussiste un'obbligazione di standstill, occorre stabilire se una disciplina quale quella di specie, che introduce un trattamento differenziato tra uomini e donne nell'ambito delle prestazioni di invalidità, possa ritenersi legittima ai sensi dell'art. 7, n. 1, lett. a); si deve in altri termini definire quale sia la natura del collegamento che deve sussistere fra l'età differenziata prevista per il pensionamento e le discriminazioni in altre prestazioni sociali perché queste ultime possano ritenersi giustificate ai sensi dell'art. 7, n. 1, lett. a). Ricordo che, in base a questa disposizione, gli Stati membri conservano la facoltà di escludere dal campo di applicazione della direttiva la determinazione dell'età alla quale i lavoratori acquistano il diritto di ricevere la «pensione di vecchiaia e di fine lavoro» ed altresì le conseguenze che la scelta di determinati limiti d'età può comportare per altre prestazioni di sicurezza sociale.

Per rispondere al quesito, occorre dunque stabilire se il diverso regime dell'assegno di invalidità per uomini e donne di cui si discute possa qualificarsi come «conseguente» alla fissazione di limiti di età diversi per uomini e donne per l'acquisto del diritto alla pensione di vecchiaia e di fine lavoro ai sensi della disposizione testé richiamata.

25 La questione non è nuova. La Corte se ne è già occupata in diverse pronunce relative a situazioni similari. Richiamo sin d'ora, nelle loro linee essenziali, le due più significative.

Nella sentenza del 30 marzo 1993, Thomas (11), la Corte ha preso in esame la compatibilità con il principio della parità di trattamento di una disposizione nazionale che esclude le prestazioni di invalidità in favore di persone che hanno superato l'età del pensionamento per il fatto che tale età è diversa per gli uomini e per le donne. La Corte ha riconosciuto che una tale disposizione contrasta con il principio suddetto, ma l'ha nondimeno ritenuta giustificata ai sensi dell'art. 7, n. 1, lett. a), della direttiva nella misura in cui si tratta di una conseguenza che può derivare, per prestazioni diverse da quella della pensione di vecchiaia, dalla fissazione di età di pensionamento differenti. Ha precisato che l'effetto di giustificazione si produce se le discriminazioni sono «necessariamente e obiettivamente collegate con la differenza di pensionamento» e precisamente solo se esse «sono obiettivamente necessarie per evitare di mettere in gioco l'equilibrio finanziario del sistema di sicurezza sociale o per garantire la coerenza tra il regime delle pensioni di vecchiaia e il regime delle altre prestazioni» (12). Ha aggiunto che spetta al giudice nazionale stabilire se si tratti di una discriminazione obiettivamente necessaria ad evitare di mettere in pericolo l'equilibrio finanziario del regime di previdenza sociale o a garantire la coerenza tra il regime della pensione di vecchiaia e il regime delle altre prestazioni (13). Ha poi precisato che ciò non esclude che la Corte possa fornire indicazioni idonee a mettere il giudice nazionale in grado di decidere (14). La Corte ha anche rilevato, con riferimento all'esigenza di salvaguardare l'equilibrio finanziario tra il regime delle pensioni di vecchiaia e quello di altre prestazioni sociali, che le prestazioni rientranti in regimi non contributivi a favore di persone esposte a taluni rischi, indipendentemente dal diritto di tali persone ad una pensione di vecchiaia basata sui contributi maturati, «non esercita influenza diretta sull'equilibrio finanziario dei regimi contributivi di pensione» (15). Muovendo da questa premessa la Corte sembra indicare al giudice nazionale che la normativa britannica in materia di prestazioni di invalidità non dovrebbe essere considerata come una conseguenza della diversa età pensionabile, dal momento che essa non è necessaria a garantire la coerenza e l'equilibrio finanziario del regime pensionistico, fermo restando, beninteso, che spetta al giudice nazionale accertare se tale condizione in concreto ricorra.

Nella sentenza 11 agosto 1995, Graham (16), la Corte ribadisce l'affermazione generale che figura nelle sentenze precedenti, e precisamente che l'art. 7, n. 1, lett. a), della direttiva autorizza non solo la fissazione per legge di un'età differente secondo il sesso per la concessione delle pensioni di vecchiaia e di fine lavoro, ma altresì le discriminazioni in altri regimi di prestazioni sociali che sono necessariamente ed obiettivamente legate alle differenze nell'età del pensionamento. In applicazione di questa disposizione la Corte considera legittima (rispetto alla direttiva) una normativa nazionale che, dopo aver previsto un'età pensionabile di 65 anni per gli uomini e di 60 per le donne, stabilisce poi, da un lato, che l'importo della pensione di invalidità spettante a lavoratori divenuti inabili prima di raggiungere l'età pensionabile sia limitato all'importo effettivo della pensione di fine lavoro a partire dall'età di 60 anni per le donne e di 65 per gli uomini e, dall'altro, attribuisce un assegno ad integrazione della pensione di invalidità alle persone che, nel momento in cui divengono inabili, hanno meno di 55 anni se donne e meno di 60 se uomini. La Corte perviene a questa conclusione considerando che il carattere discriminatorio delle anzidette disposizioni inerenti al limite ed all'integrazione della pensione di invalidità nel senso ora detto è giustificato poiché esse rientrano nel campo di applicazione della deroga di cui all'art. 7, n. 1, lett. a), della direttiva essendo direttamente e necessariamente connesse alle differenze nell'età del pensionamento (17). Al riguardo la Corte ha affermato che le suddette «discriminazioni sono obiettivamente necessarie per evitare di mettere in gioco l'equilibrio finanziario del sistema di sicurezza sociale o per garantire la coerenza tra il regime delle pensioni di vecchiaia e quello delle altre prestazioni» (18). La Corte ha chiarito che tali discriminazioni sono obiettivamente connesse alla fissazione di un'età pensionabile differente per gli uomini e per le donne, dal momento che esse derivano direttamente dal fatto che è stata fissata una differente età di pensionamento (19). Ha precisato altresì che le discriminazioni in questione sono connesse in modo necessario alle diverse età pensionabili, considerato che le prestazioni di invalidità hanno la funzione di sostituire il reddito ricavato dall'attività lavorativa con l'implicazione che nulla vieta allo Stato di prevedere che esse cessino e siano sostituite dalla pensione di fine lavoro nel momento in cui i beneficiari smetterebbero comunque di lavorare avendo raggiunto l'età pensionabile (20). La Corte sottolinea che una interpretazione dell'art. 7, n. 1, lett. a), che si risolvesse nel divieto per gli Stati di limitare l'importo delle prestazioni di invalidità da corrispondere ai lavoratori prima che raggiungano l'età della pensione e che imponesse di fissare questo importo in una misura che corrisponda alla pensione di vecchiaia cui dette persone avrebbero avuto diritto a fine lavoro si risolverebbe in una limitazione della stessa facoltà di fissare età pensionabili differenziate, facoltà, questa, espressamente riconosciuta agli Stati membri dalla detta disposizione (21). La Corte infine rileva che una interpretazione tanto restrittiva avrebbe anche l'effetto di compromettere la coerenza del regime pensionistico di fine lavoro rispetto a quello delle prestazioni di invalidità perché: a) gli Stati membri non potrebbero concedere ai lavoratori ancora al di sotto dell'età pensionabile divenuti inabili prestazioni di invalidità superiori alla pensione di fine lavoro ma corrispondenti al reddito che avrebbero percepito fino all'età del pensionamento se avessero continuato a lavorare; b) le donne verrebbero a fruire di una pensione di invalidità pari all'importo integrale della pensione di fine lavoro se, per assicurare la parità di trattamento tra uomini e donne, la pensione di invalidità loro riconosciuta a partire dall'età di 60 anni fosse invece loro riconosciuta, come per gli uomini, all'età di 65 anni (22).

26 Da questa giurisprudenza si ricava che, perché una discriminazione in materia di sicurezza sociale possa considerarsi giustificata ex art. 7, n. 1, lett. a), deve costituire la «conseguenza» necessaria della previsione di un'età di pensionamento differenziata per gli uomini e per le donne. Le sentenze Thomas e Graham, sopra riportate nei loro passaggi essenziali, forniscono le linee per la soluzione del caso di specie. In esse la Corte chiarisce che una discriminazione indotta, provocata cioè dalla diversa età di pensionamento (in quei casi si trattava, come nella specie, di prestazioni di invalidità il cui regime variava con l'età di pensionamento), può considerarsi «conseguenza» della diversa età di pensionamento quando è obiettivamente necessaria a garantire l'equilibrio finanziario del sistema di sicurezza sociale o la coerenza tra il regime delle pensioni e quello delle altre prestazioni. Chiarisce inoltre che queste discriminazioni sono obiettivamente collegate all'età pensionabile dal momento che derivano direttamente dalla circostanza che tale età è stata fissata in modo differenziato secondo il sesso e che esse sono connesse in modo necessario allo stesso presupposto, perché le prestazioni di invalidità sostituiscono il reddito da lavoro e pertanto, di massima, quando interviene il pensionamento ed è quindi cessata la produzione di reddito da lavoro, la loro funzione non trova più giustificazione. Nella sentenza Graham la Corte spiega che le discriminazioni indotte per essere legittime devono garantire la coerenza tra i due regimi sotto due profili: in primo luogo perché gli Stati membri non potrebbero concedere ai lavoratori che non hanno raggiunto l'età pensionabile e sono divenuti inabili prestazioni di invalidità corrispondenti al reddito che avrebbero seguitato a percepire se avessero potuto continuare a lavorare; e in secondo luogo perché le donne verrebbero a fruire di una prestazione di invalidità eguale alla pensione di fine lavoro se, per assicurare la parità di trattamento, l'assegno di invalidità fosse ad esse riconosciuto alla stessa età degli uomini, cioè a 65 anni.

27 Nella specie, le discriminazioni prese in considerazione dal giudice a quo riguardano in tre casi le donne e in due gli uomini. La signora Spencer fa valere che la sostituzione del REA integrale con il REA di importo congelato, per i lavoratori andati come lei in pensione tra l'aprile 1987 e l'aprile 1989, aveva reso la prestazione di cui ella beneficiava meno favorevole di quella analoga spettante agli uomini che, andando in pensione dopo, a 65 anni, a parità di ogni altra condizione avevano avuto la possibilità di conservare il diritto al REA integrale. Le ricorrenti Hepple e Steck fanno valere che la sostituzione del REA con un'indennità inferiore, la RA, al raggiungimento dell'età pensionabile, aveva peggiorato il loro trattamento rispetto a quello assicurato agli uomini in condizioni simili; ciò perché le donne, andando in pensione prima degli uomini, cessano prima degli uomini di ricevere l'indennità di invalidità nella misura intera. I ricorrenti Lun e Kimber prospettano una discriminazione inversa, che cioè si risolve a vantaggio delle donne ed a danno dei ricorrenti. Fanno valere che, mentre ad essi non veniva corrisposta il REA di importo fisso perché nel periodo aprile 1987 - aprile 1989 non avevano ancora raggiunto l'età pensionabile, donne aventi la loro stessa età, nelle stesse condizioni, avrebbero potuto chiedere il pensionamento e quindi acquisire il diritto al REA di importo intero (sia pure «congelato»).

Tutte le discriminazioni denunciate dai ricorrenti, e sin qui descritte, sono indubbiamente collegate come effetto a causa alla previsione di età di pensionamento diverse per uomini e donne. Per rispondere al primo quesito occorre stabilire se le discriminazioni indotte siano obiettivamente necessarie nel senso che senza di esse gli Stati membri non avrebbero potuto introdurre nei rispettivi ordinamenti un'età di pensionamento differenziata secondo il sesso.

28 I ricorrenti e la Commissione, adducendo argomenti che in larga misura coincidono, negano che tra l'età di pensionamento diversa e le regole introdotte a partire dal 1986 per le prestazioni d'invalidità vi sia un rapporto di necessità.

29 I ricorrenti fanno valere che la legislazione britannica, stabilendo un collegamento tra diritti a pensione e assegni di invalidità, contrasterebbe con il principio della parità di trattamento tutelato dalla direttiva e non potrebbe considerarsi giustificata ai sensi dell'art. 7, n. 1, lett. a). Per confortare questa tesi essi sottolineano che prima delle riforme del 1986 il regime della pensione e quello dell'indennità di invalidità (che allora non era collegata con l'età del pensionamento e veniva corrisposta agli aventi diritto per tutta la vita) erano coesistiti senza dar luogo ad inconvenienti. Ciò è confermato dalla giurisdizione remittente, la quale afferma in termini espressi che le differenze di età pensionabile erano «coesistite con l'Industrial Injuries Scheme (...) per quasi quarant'anni a partire dal 1948» e che, conseguentemente, il «REA poteva semplicemente essere lasciata come era o si poteva procedere ad un taglio dell'età non discriminatorio, senza sconvolgere il regime pensionistico rispetto a come aveva sempre funzionato» (23).

30 Nella stessa prospettiva la Commissione sottolinea innanzi tutto che la disposizione controversa ha carattere eccezionale e deve quindi essere interpretata in senso stretto. Ora, non c'è dubbio che le esclusioni contenute nel n. 1 dell'art. 7 costituiscono una deviazione rispetto all'attuazione generalizzata, con i modi e i tempi che la direttiva fissa, del principio della parità di trattamento nel settore della sicurezza sociale. Già si è visto in che modo questo elemento può influenzare, in un contesto come quello in caso di specie, l'interpretazione della detta disposizione.

31 Questi rilievi mi paiono ragionevoli. Mi sembra arduo sostenere che l'età differenziata per il pensionamento rende indispensabili le discriminazioni collegate al sesso, tanto a danno delle donne che a danno degli uomini, cui dà luogo il regime dell'assegno di invalidità vigente nel Regno Unito. Tali discriminazioni sembrano piuttosto conseguenza di una scelta (non obbligata) del legislatore nazionale, che ha sacrificato la parità di trattamento per giungere, come si esprime il provvedimento di rinvio, alla «soppressione di una vistosa anomalia» e precisamente per non «continuare a pagare una prestazione come il REA a soggetti troppo vecchi per lavorare» (24). Tali discriminazioni inoltre, come risulta dall'ordinanza di rinvio, non sono obiettivamente necessarie ad evitare di mettere in gioco l'equilibrio finanziario del sistema di sicurezza sociale. Ritengo dunque che le discriminazioni che caratterizzano il sistema inglese non costituiscano la soluzione ottimale del problema e che si debba intervenire per razionalizzare il rapporto tra i due regimi. Si aggiunga che, proprio se si tien conto dell'esigenza di controllare la legittimità delle nuove discriminazioni alla luce del principio di proporzionalità, appare vieppiù evidente che il fatto che l'art. 7, n. 1, lett. a), consenta le discriminazioni consequenziali alle diverse età di pensionamento non può essere inteso nel senso di consentire esclusivamente la meccanica trasposizione dei diversi limiti di età nei regimi delle prestazioni di invalidità. Al contrario, proprio l'esigenza che la deroga comprometta il meno possibile la parità di trattamento deve indurre ad interpretare la detta disposizione nel senso che gli Stati debbono, se del caso e nei limiti del possibile, intervenire con misure articolate e tali da non vanificare la funzione della direttiva e l'esigenza primaria di assicurare il rispetto della parità di trattamento.

Riferendosi alla giurisprudenza Thomas e Graham, la Commissione assume poi che la diversa età del pensionamento in ragione del sesso non rendeva obiettivamente necessarie le discriminazioni introdotte a partire dal 1986 nel regime degli assegni di invalidità. Ciò perché queste discriminazioni non erano imposte né da esigenze finanziarie né dalla necessità di garantire la coerenza tra i due regimi, quello pensionistico e quello delle assicurazioni contro i rischi di invalidità.

Anche la Commissione, come i ricorrenti, rileva che i due regimi erano coesistiti senza inconvenienti sin dal 1948, e ciò benché l'elemento «età del pensionamento» non fosse preso in conto in alcun modo ai fini della corresponsione dell'assegno d'invalidità e della determinazione del suo ammontare. Già ho detto che questo argomento non è privo di fondamento.

32 In senso contrario, la difesa del Regno Unito fa valere che le discriminazioni per cui è causa sarebbero giustificate dalla necessità di garantire la coerenza tra il regime delle pensioni e quello dell'assegno d'invalidità. Al riguardo osserva che detta indennità è destinata a compensare una perdita di reddito da lavoro e che, pertanto, non sarebbe logico che chi ha titolo a una tale prestazione seguiti a goderne anche dopo avere raggiunto l'età del pensionamento, cioè anche al di là della data in cui, in ogni caso, avrebbe cessato di percepire un reddito da lavoro. Su questo punto la difesa del governo inglese invoca la sentenza Graham, già citata, nella quale si afferma che, una volta riconosciuto che «le prestazioni di invalidità hanno la funzione di sostituire il reddito ricavato dall'attività lavorativa, nulla osta a che uno Stato membro preveda che esse cessino di essere corrisposte e vengano sostituite dalla pensione di fine lavoro nel momento in cui i beneficiari smetterebbero comunque di lavorare, avendo raggiunto l'età pensionabile» (25).

33 Questo assunto non può non essere condiviso. Non si può dubitare del fatto che gli Stati membri sono liberi di definire il regime dell'assegno d'invalidità stabilendone i tempi di fruizione e l'importo. Resta da vedere tuttavia se si tratti di una libertà senza limiti, e precisamente se e quale ruolo giochino al riguardo il principio della parità di trattamento e il principio di proporzionalità.

La stessa sentenza Graham, a conforto della tesi secondo cui gli Stati avrebbero la libertà di introdurre discriminazioni nel regime dell'indennità d'invalidità in corrispondenza con la previsione di diverse età di pensionamento in ragione del sesso, osserva che l'eventuale divieto di una tale facoltà «comprometterebbe (...) la coerenza del regime pensionistico con quello delle prestazioni d'invalidità sotto due profili»: in primo luogo, perché impedirebbe di concedere agli uomini divenuti inabili, ma che si trovano al di sotto dell'età pensionabile, assegni di invalidità superiori alla pensione di fine lavoro che sarebbe loro spettata se avessero continuato a lavorare fino all'età pensionabile, mentre consentirebbe di concedere alle donne in età pensionabile un trattamento complessivo superiore a quello ad esse spettante; e, in secondo luogo, perché, se l'assegno di invalidità spettante alle donne venisse loro corrisposto, come per gli uomini, in misura ridotta a partire dai 65 anni anziché dai 60, esse, se divengono inabili prima dell'età pensionabile, cioè prima dei 60 anni, avrebbero diritto di fruire, fino a 65 anni, di un assegno di invalidità di importo pari alla pensione di fine lavoro (26).

34 Questo argomento a prima vista può apparire convincente. Tuttavia, in senso contrario si può osservare che il governo inglese non ha dimostrato che fosse impossibile ridurre alla logica il sistema, cioè rendere coerenti i due regimi della pensione e dell'assegno di invalidità, senza creare nuove discriminazioni o dando luogo a discriminazioni meno marcate. A questo proposito è significativo che, come ho già sottolineato, la giurisdizione remittente abbia ritenuto che «si poteva procedere ad un taglio dell'età non discriminatorio senza sconvolgere il regime pensionistico». Non mi sembra, cioè, che, sulla base degli elementi di cui disponiamo, sia possibile escludere altre forme d'intervento che tengano conto dell'esigenza di assicurare la parità di trattamento, parità che costituisce la finalità della direttiva e che corrisponde ai principi generali del sistema. Non basta, per giustificare la deroga, mettere in evidenza le incongruenze del rapporto tra i due regimi venutesi a creare con le riforme introdotte a partire dal 1986; occorre invece, a mio avviso, dimostrare che a queste incongruenze si può porre rimedio soltanto con le modalità scelte dal legislatore britannico (e quindi introducendo ex novo discriminazioni secondo il sesso nel regime dell'assegno d'invalidità) ed inoltre che questo intervento è proporzionale rispetto alla finalità che si intende perseguire.

Tutto ciò deve comunque essere accertato in fatto dal giudice nazionale, al quale la Corte non può che limitarsi a fornire delle indicazioni di massima (27).

35 Il governo inglese, invocando ancora una volta la sentenza Graham (28), fa altresì valere che interpretare l'art. 7, n. 1, lett. a), nel senso che esso vieta agli Stati membri di limitare le prestazioni di invalidità da corrispondersi a soggetti che hanno superato l'età di pensionamento equivarrebbe a limitare o addirittura a far venir meno la facoltà di prevedere età diverse secondo il sesso per il pensionamento, facoltà loro attribuita dalla detta disposizione in termini espliciti e non condizionati.

Anche quest'ultimo argomento non persuade, perché gli Stati membri, per assicurare la coerenza tra i due regimi, sono liberi, come già si è evidenziato, di ricercare e adottare soluzioni differenti dalla trasposizione meccanica della diversa età di pensionamento sul regime dell'assegno d'invalidità, e tali da non dar luogo a discriminazioni. Torno a dire che non è stato dimostrato che altre soluzioni non vi siano e che viceversa è ragionevole ritenere che sia possibile individuarle intervenendo sull'importo dell'assegno e sui tempi di fruizione del medesimo.

36 Si aggiunga infine che, nell'interpretazione dell'art. 7, n. 1, lett. a), non può non tenersi conto del principio della parità di trattamento letto in relazione all'art. 5, secondo comma, del Trattato CE (divenuto art. 10 CE), secondo cui «gli Stati si astengono da qualsiasi misura che rischia di compromettere la realizzazione degli scopi del (...) Trattato» (29), tra i quali deve riconoscersi anche la parità di trattamento la cui realizzazione, in un settore determinato, la direttiva ha lo scopo di conseguire (30).

37 Muovendo da queste premesse, si deve riconoscere la possibilità che disposizioni discriminatorie indotte, sopravvenute rispetto all'entrata in vigore della direttiva ed astrattamente riconducibili all'esclusione di cui all'art. 7, n. 1, lett. a), sacrifichino eccessivamente (cioè in misura non proporzionata al fine) il principio della parità di trattamento enunciato, con riferimento al trattamento dei lavoratori, all'art. 119 del Trattato CE (divenuto art. 141 CE), principio di cui la direttiva costituisce l'applicazione in un settore determinato, quello della sicurezza sociale, e in questo modo impediscano alla direttiva stessa di svolgere la sua funzione. In questa prospettiva acquista significato la logica d'insieme della direttiva, che è essenzialmente volta a correggere, progressivamente entro un arco di tempo di sei anni, la normativa esistente in materia di sicurezza sociale in modo da renderla conforme al principio della parità uomo-donna. Ne segue che una disposizione discriminatoria che per il suo contenuto compromette le finalità della direttiva può essere considerata comunitariamente illegittima anche quando è riconducibile alla lettera della norma derogatoria. La compromissione può derivare anche dal fatto che lo stesso risultato avrebbe potuto essere conseguito, come già ho detto più volte, attraverso disposizioni diverse, le quali, per il loro contenuto intrinseco e per il fatto di essere accompagnate da disposizioni complementari con effetti compensativi, non sacrifichino o comunque sacrifichino in misura minore la parità di trattamento.

38 Suggerisco dunque di rispondere al primo ed al secondo quesito affermando che gli Stati membri hanno la facoltà di fissare, come presupposto per l'accesso ad una prestazione d'invalidità, condizioni di età diverse in ragione del sesso collegate a quelle analoghe previste per il pensionamento e di procedere, per questa via, all'erogazione di assegni di importo diverso per uomini e donne ad aventi diritto che si trovino in condizioni in tutto simili fatta eccezione per il sesso. Ciò a condizione che questa diversità di importo sia necessaria a garantire la coerenza fra i due regimi del pensionamento e delle prestazioni di invalidità, nel senso che il sacrificio imposto al principio della parità di trattamento nell'ambito del regime delle prestazioni di invalidità sia, da un lato, inevitabile, attesa la previsione di una diversa età di pensionamento, e, dall'altro, indispensabile per conseguire il risultato voluto, nonché proporzionato rispetto a tale risultato. Spetta al giudice nazionale compiere i relativi accertamenti. La detta facoltà può eccezionalmente essere esercitata anche per introdurre disposizioni discriminatorie che non esistevano alla scadenza del termine per l'attuazione della direttiva, sempre, tuttavia, nel rispetto delle condizioni ora indicate, se necessario prevedendo al tempo stesso adeguate compensazioni o correttivi delle modalità di calcolo dell'indennità di invalidità idonei a contrastare gli effetti delle disposizioni discriminatorie. Anche in tal caso spetta al giudice nazionale compiere i necessari accertamenti, e precisamente stabilire se ricorrano presupposti tali da giustificare le disposizioni discriminatorie.

Sul terzo quesito

39 Qualora il giudice nazionale, in base agli accertamenti sopra indicati, stabilisca che le discriminazioni in materia di prestazioni di invalidità non sono giustificate ex art. 7, n. 1, lett. a), e pertanto sono illegittime dal punto di vista del diritto comunitario, si pone il problema degli strumenti che l'ordinamento offre ai singoli per consentire loro di contrastare, in concreto, le conseguenze sulla loro sfera giuridica di queste discriminazioni. In termini più generali, si tratta di stabilire gli effetti di una sentenza emessa a conclusione di un procedimento di interpretazione pregiudiziale sulle fonti nazionali collegate a quella comunitaria presa in considerazione e quindi sulla sfera giuridica dei soggetti nei cui confronti deve essere applicata direttamente la fonte comunitaria.

Con riferimento a questo aspetto del caso, il giudice a quo vuole sapere se e in che limiti, in assenza di una normativa nazionale di attuazione della direttiva, i lavoratori discriminati possano, per la dottrina dell'effetto diretto, rivolgersi al giudice nazionale per ottenere una prestazione integrativa, e in particolare come debba essere determinato l'importo di tale prestazione.

40 Ricordo che, secondo la vostra giurisprudenza, i soggetti discriminati in violazione dell'art. 4, n. 1, della direttiva hanno diritto di essere trattati nello stesso modo dei soggetti privilegiati che si trovano nella loro stessa situazione, con la sola differenza del sesso. Il trattamento riservato a tali soggetti, infatti, in mancanza di attuazione della direttiva è generalmente considerato «il solo punto di riferimento valido» per rimuovere le conseguenze della discriminazione (31).

Su questa affermazione di carattere generale la giurisprudenza è uniformemente orientata e le parti concordano. Resta tuttavia da stabilire secondo quali parametri debba essere quantificata la prestazione integrativa destinata a ripristinare la parità di trattamento. Al riguardo, il giudice a quo vuol sapere, sostanzialmente, se in questo calcolo si debba tener conto non solo della condizione di svantaggio del soggetto discriminato mettendola a confronto con quella corrispondente del soggetto di riferimento, ma anche di tutti quei vantaggi differenziali di cui in taluni casi il soggetto discriminato beneficia in ragione di altri profili dello stesso regime di sicurezza sociale. Vuole altresì sapere, evidentemente sempre secondo la stessa logica, se nel calcolo si debba tener conto anche delle opzioni diverse offerte ai lavoratori (ed eventualmente esercitate) in funzione dell'età pensionabile differenziata secondo il sesso, opzioni che possono comportare l'erogazione a favore del soggetto discriminato di prestazioni di volta in volta più o meno vantaggiose rispetto a quelle corrisposte al soggetto di riferimento.

41 A tale quesito va data risposta affermativa. Pervengo a questa conclusione sulla base delle seguenti considerazioni.

Il diritto all'integrazione dell'assegno ha la sua base giuridica nell'ordinamento comunitario, e precisamente nel principio della parità di trattamento nella retribuzione dei lavoratori enunciato all'art. 119 del Trattato CE (divenuto art. 141 CE), del quale l'art. 4, n. 1, della direttiva è espressione. Nell'applicare questo principio alle posizioni individuali si deve assumere a parametro, come si è detto, il trattamento corrispondente assicurato ai soggetti di riferimento. Tale parametro è costituito dai vantaggi che la normativa nazionale garantisce al soggetto di riferimento a titolo di prestazione di invalidità. L'utilizzazione del parametro non si traduce dunque, come invece sembra sostenere la Commissione, nella mera estensione ai soggetti sfavoriti del regime nazionale applicabile ai soggetti di riferimento: una tale operazione si risolverebbe infatti nel riconoscere a certe disposizioni nazionali una portata diversa e più vasta di quella che è loro propria e in tal modo altererebbe, in modo sostanziale, la fonte del diritto alla prestazione integrativa, fonte che, come si è detto, si rinviene nel sistema comunitario e non negli ordinamenti nazionali. Si aggiunga che per determinare l'importo dell'assegno integrativo non basta riferirsi ai vantaggi o svantaggi differenziali legati all'età, ma occorre anche considerare quale incidenza possono avere sul detto importo le opzioni cui fa cenno la lett. b) del terzo quesito: anche queste infatti incidono sui vantaggi che il sistema garantisce agli interessati e possono quindi far variare o anche capovolgere il rapporto tra le prestazioni degli uomini e delle donne.

Queste conclusioni trovano conferma nella diversità delle posizioni dei ricorrenti nella causa principale, diversità che rende necessaria la definizione di soluzioni differenziate caso per caso. Spetta al giudice nazionale compiere le relative valutazioni e individuare, sulla base di queste, il livello dell'assegno integrativo.

42 Non è inutile a questo punto ribadire che resta fermo il dovere del legislatore nazionale di porre in essere le misure necessarie per dare attuazione alla direttiva. Questo dovere va sottolineato soprattutto perché si è constatato che gli interventi giudiziari consentiti dall'efficacia diretta del principio comunitario della parità di trattamento sono destinati ad incontrare grossi ostacoli sul terreno pratico per la difficoltà di valutare in ciascuna ipotesi il vantaggio differenziale del soggetto di riferimento da assumere a parametro della prestazione integrativa e perché comunque, trattandosi di interventi giudiziari, va scontata la possibilità di una loro disomogeneità e la difficoltà di ridurre ad effettiva unità indirizzi diversi.

43 Infine, un'ultima considerazione su un aspetto delicato della controversia sul quale le parti non si sono soffermate. Con riguardo all'ipotesi in cui il giudice nazionale, compiuti gli accertamenti di fatto di sua spettanza sopra indicati, concluda per la incompatibilità della normativa britannica con il diritto comunitario, la Corte potrà eventualmente valutare, d'ufficio, se, tenuto conto dei contenuti e dell'impatto di una tale pronuncia, sia possibile ed opportuno limitarne gli effetti retroattivi secondo la giurisprudenza Barber (32).

Conclusioni

44 Per tutte le considerazioni sin qui svolte suggerisco alla Corte di rispondere come segue ai quesiti proposti dal Social Security Commissioner:

«1) L'art. 7, n. 1, lett. a), della direttiva del Consiglio 79/7/CEE deve essere interpretato nel senso che gli Stati membri hanno la facoltà di fissare, come condizioni per l'accesso ad una prestazione del tipo della Reduced Earning Allowance (REA; assegno per riduzione del reddito) prevista dalla legislazione del Regno Unito in materia di infortuni sul lavoro e di malattie professionali, età diverse in ragione del sesso collegate alle condizioni di età per accedere alla pensione egualmente differenziate per sesso. Ciò, però, solo se questo collegamento e le conseguenti differenze di importo delle prestazioni di invalidità in funzione del sesso sono necessari a garantire la coerenza fra i due regimi, quello pensionistico e quello delle prestazioni di invalidità. La coerenza sussiste se la deroga alla parità di trattamento è imposta dalla previsione di un'età differenziata di pensionamento, nel senso che tale differenziazione non potrebbe essere introdotta senza la correzione corrispondente nel regime delle prestazioni di invalidità, ed è altresì proporzionata rispetto al risultato che con essa si intende conseguire. Spetta al giudice nazionale compiere i relativi accertamenti. La detta facoltà può eccezionalmente essere esercitata anche per introdurre disposizioni discriminatorie che non esistevano alla scadenza del termine per l'attuazione della direttiva, sempre tuttavia nel rispetto delle condizioni ora indicate, prevedendo al tempo stesso, se necessario, adeguate compensazioni o correttivi delle modalità di calcolo della prestazione integrativa di invalidità aventi lo scopo di contrastare gli effetti delle disposizioni discriminatorie. Anche in questo caso spetta al giudice nazionale compiere i necessari accertamenti, cioè stabilire se ricorrono presupposti tali da giustificare le disposizioni discriminatorie.

2) Se le discriminazioni in materia di sicurezza sociale non ricadono nel campo di applicazione della deroga di cui all'art. 7, n. 1, lett. a), e se manca la normativa nazionale di attuazione della direttiva, i soggetti discriminati hanno la facoltà di adire il giudice nazionale per ottenere, sulla base dell'art. 119 del Trattato CE (divenuto art. 141 CE) e dell'art. 4, n. 1, della direttiva, una prestazione di invalidità integrativa. L'importo di tale prestazione è pari alla differenza fra il valore della prestazione spettante al soggetto di riferimento e quello della prestazione spettante, secondo le disposizioni nazionali ritenute illegittime, al soggetto discriminato. Per prestazione spettante al soggetto di riferimento si devono intendere tutti i vantaggi, riconducibili alla prestazione di invalidità, che la normativa nazionale garantisce a questo soggetto. Spetta al giudice nazionale determinare caso per caso tale valore di riferimento».

(1) - GU 1979, L 6, pag. 24.

(2) - Il corsivo è mio.

(3) - V. il n. 12 dell'allegato 7 del Social Security Contributions and Benefits Act del 1992.

(4) - V. il n. 13 dell'allegato 7 del Social Security Contributions and Benefits Act del 1992.

(5) - Così dispone il già citato Social Security Contributions and Benefits Act del 1992, nel testo modificato in forza del Pension Act del 1995.

(6) - Il corsivo è mio.

(7) - Sentenza 7 luglio 1994, causa C-420/92 (Racc. pag. I-3191, punto 21).

(8) - Il corsivo è mio.

(9) - Sul punto, si vedano le conclusioni dell'avvocato generale Mancini nella causa 30/85, Teuling (Racc. 1987, pag. 2507, in particolare pagg. 2513 e 2514). Si vedano anche le conclusioni dell'avvocato generale Darmon nella causa C-229/89, Commissione/Belgio (Racc. 1991, pag. I-2216, in particolare pag. I-2222).

(10) - V., al riguardo, sentenza 18 dicembre 1997, causa C-196/96, Inter-Environnement Wallonie/Regione vallona (Racc. pag. I-7411, punto 45); v. altresì le conclusioni dell'avvocato generale Darmon, sopra citate.

(11) - Causa C-328/91, Thomas e a. (Racc. pag. I-1247).

(12) - V. punto 12.

(13) - V. punto 13.

(14) - V. punto 13.

(15) - V. punto 14.

(16) - Causa C-92/94, Graham e a. (Racc. pag. I-2521).

(17) - V. punto 11.

(18) - V. punto 12.

(19) - V. punto 13.

(20) - V. punto 14.

(21) - V. punto 15.

(22) - Si veda anche, tra le altre, sentenza 7 luglio 1992, causa C-9/91, Equal Opportunities Commission (Racc. pag. I-4297), nella quale la Corte afferma che l'art. 7, n. 1, lett. a), della direttiva deve essere interpretato nel senso che esso autorizza non solo la fissazione di un'età pensionabile diversa a seconda del sesso ai fini della concessione delle pensioni di vecchiaia e di fine lavoro, ma anche quelle altre discriminazioni che sono necessariamente collegate a tale differenza. In applicazione di questo criterio, la previsione per uomini e donne di periodi di contribuzione diversi per avere diritto ad una pensione di importo identico deve considerarsi consentita poiché, se tale disuguaglianza nella durata dei periodi di contribuzione non è conservata, «il mantenimento» di un'età pensionabile diversa non può realizzarsi senza modificare le condizioni dell'equilibrio finanziario esistente (v. punto 16). La Corte aggiunge che un'interpretazione dell'art. 7, n. 1, lett. a), che escluda l'applicabilità della deroga, che cioè non consenta che in conseguenza della previsione di età diverse per il pensionamento di uomini e donne a contributi di entità diversa possano corrispondere pensioni di identico contenuto sarebbe eccessivamente restrittiva, perché da un lato consentirebbe l'introduzione di età diverse per il pensionamento e dall'altro renderebbe di fatto non realizzabile questo regime imponendo di procedere a «un raggiustamento generalizzato del sistema di contributi e di prestazioni» entro un tempo assai limitato, cioè prima della scadenza del termine di sei anni (a questo fine) fissato dall'art. 8 della direttiva; ciò comporterebbe una profonda modificazione dell'equilibrio finanziario che si basa sull'obbligo di versare contributi fino ad età pensionabili differenti per gli uomini e per le donne (v. punto 18). Secondo la Corte, infatti, la gradualità (v. l'art. 1 della direttiva) con cui il legislatore ha stabilito di attuare il principio dell'eguaglianza di trattamento tra uomini e donne non potrebbe essere assicurata se la portata della deroga consentita dall'art. 7, n. 1, lett. a), fosse intesa in maniera restrittiva. La Corte, dunque, partendo dal rilievo che la deroga è consentita solo se è necessaria a raggiungere l'obbiettivo della citata disposizione della direttiva, cioè per permettere agli Stati di fissare un'età pensionabile diversa per gli uomini e per le donne, riconosce che eventuali discriminazioni nell'obbligo di versare i contributi e nel calcolo di questi ai fini della pensione «sono necessariamente collegate» alla diversa età pensionabile. Si veda anche la più recente sentenza 19 ottobre 1995, causa C-137/94, Richardson (Racc. pag. I-3407), nella quale la Corte esamina la questione se l'art. 7, n. 1, lett. a), consenta ad uno Stato membro che, in applicazione di detta disposizione, ha fissato l'età di pensionamento delle donne a 60 anni e quella degli uomini a 65 di prevedere anche che le donne fruiscano di un esonero dal pagamento delle spese mediche a partire dall'età di 60 anni e gli uomini, invece, a partire dall'età di 65 anni. La Corte ha ritenuto che la discriminazione in materia di esonero dalle spese mediche non è rinconducibile alla deroga di cui all'art. 7, n. 1, lett. a), perché essa non è una conseguenza necessaria del diverso livello dell'età pensionabile: ciò sia per la considerazione generale che la concessione di pensioni rientranti in regimi non contributivi indipendentemente dalla spettanza all'interessato di una pensione di vecchiaia non esercita un'influenza diretta sull'equilibrio finanziario dei regimi contributivi di pensione (punti 20, 21, 22, 23 e 24) sia perché, per assicurare la coerenza fra il regime delle pensioni e gli altri regimi di sicurezza sociale, non si deve necessariamente concedere l'esonero dalle spese mediche ad una età, quella del pensionamento, differentemente fissata a seconda del sesso e non necessariamente corrispondente all'età in cui l'attività professionale cessa effettivamente e i redditi di conseguenza si riducono (punti 25, 26 e 27).

(23) - V. il punto 27 del provvedimento di rinvio.

(24) - V. il punto 28 del provvedimento di rinvio.

(25) - V. punto 14.

(26) - V. punti 16, 17 e 18.

(27) - V. in tal senso la sentenza Thomas, citata.

(28) - V. punto 15.

(29) - V. le conclusioni dell'avvocato generale Darmon nella causa C-229/89, già citate.

(30) - V. le conclusioni dell'avvocato generale Mancini nella causa 30/85, già citate.

(31) - In tal senso, v., tra le altre, sentenze 24 febbraio 1994, causa C-343/92, Roks e a. (Racc. pag. I-571, punto 18); 28 settembre 1994, causa C-408/92, Avdel Systems (Racc. pag. I-4435, punto 16); 28 settembre 1994, causa C-28/93, Van den Akken e a. (Racc. pag. I-4527, punto 17).

(32) - Sentenza 17 maggio 1990, causa C-262/88 (Racc. pag. I-1889). In senso analogo, v. sentenza 8 aprile 1976, causa 43/75, Defrenne (Racc. pag. 455).