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Avviso legale importante

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61998C0397

Conclusioni dell'avvocato generale Fennelly del 12 settembre 2000. - Metallgesellschaft Ltd e altri (C-397/98), Hoechst AG e Hoechst (UK) Ltd (C-410/98) contro Commissioners of Inland Revenue e HM Attorney General. - Domanda di pronuncia pregiudiziale: High Court of Justice (England & Wales), Chancery Division - Regno Unito. - Libertà di stabilimento - Libera circolazione dei capitali - Pagamento anticipato dell'imposta sulle società sui dividendi distribuiti da una società controllata alla sua capogruppo - Società capogruppo con sede in un altro Stato membro - Violazione del diritto comunitario - Azione di ripetizione o azione di risarcimento - Interessi. - Cause riunite C-397/98 e C-410/98.

raccolta della giurisprudenza 2001 pagina I-01727


Conclusioni dell avvocato generale


1. Il presente rinvio pregiudiziale della High Court of Justice (England and Wales), Chancery Division (in prosieguo: il «giudice a quo»), riguarda i limiti entro cui, in mancanza di norme comunitarie armonizzate, la competenza degli Stati membri ad organizzare il loro sistema fiscale in materia di imposte sulle società è limitata da ragioni imperative tratte dai principi fondamentali del Trattato in materia di libera circolazione. In particolare, si chiede alla Corte di stabilire se la nozione relativamente nuova di coerenza fiscale possa essere fatta valere per giustificare la disparità di trattamento fiscale di talune società contribuenti in base al luogo di residenza delle loro capogruppo e, in caso negativo, se il diritto comunitario imponga che il diritto nazionale preveda un rimedio, sotto forma di rimborso o di risarcimento dei danni, anche nel caso in cui la disparità di trattamento si sia concretizzata solo nel pagamento anticipato di un'imposta.

I - Il contesto in fatto e in diritto

A - La normativa pertinente del Regno Unito

2. Ai sensi degli artt. 8 e 11 dell'Income and Corporation Taxes Act 1988 (legge relativa all'imposta sul reddito e all'imposta sulle società del 1988; in prosieguo: l'«ICTA 1988») l'imposta sulle società (corporation tax, in prosieguo: la «CT») viene riscossa sui profitti realizzati dalle società stabilite nel Regno Unito e dalle società non stabilite nel Regno Unito che vi esercitano un'attività commerciale mediante una filiale o un'agenzia in un determinato esercizio contabile . Per gli esercizi contabili chiusi prima del 1° ottobre 1993, la CT andava corrisposta nove mesi dopo la fine dell'esercizio contabile o un mese dopo l'emanazione dell'avviso di accertamento riguardante l'esercizio contabile, a seconda di quale fra queste due date fosse la più tarda. A partire dal 1° ottobre 1993 la CT era dovuta il giorno seguente la scadenza dei nove mesi dalla fine dell'esercizio contabile .

3. La presente causa verte sul pagamento dell'imposta sulle società anticipata («Advance Corporation Tax», in prosieguo: l'«ACT») . E' importante rilevare che il giudice a quo ha dichiarato chiaramente che, dal punto di vista del diritto britannico, ai sensi dell'art. 4 dell'ICTA 1988, «l'[ACT] è un'imposta sulle società e nessun'altra disposizione della legge del 1988 mette ciò in discussione» . Ai sensi dell'art. 14, determinate «distribuzioni previste dalla legge», di norma il pagamento di dividendi, comportavano l'obbligo di versare l'ACT. Le società con sede nel Regno Unito che avessero provveduto ad una distribuzione del genere erano assoggettabili in tale occasione all'ACT su un imponibile pari all'importo o al valore della «distribuzione» effettuata. Le società erano tenute a presentare una dichiarazione per ogni trimestre indicando l'importo di ogni «distribuzione» effettuata durante il periodo considerato. L'ACT era dovuta entro 14 giorni dalla fine del trimestre .

4. In linea di principio, l'ACT pagata durante il relativo periodo contabile poteva essere imputata al debito d'imposta a titolo della CT base di tale periodo, o, in alternativa, essere trasferita alle consociate della società, le quali potevano quindi imputarla alla CT base da esse dovuta (artt. 239 e 240). La CT era dovuta soltanto nove mesi dopo la fine dell'esercizio contabile. Tuttavia, l'ACT doveva essere pagata entro 14 giorni dalla fine del relativo periodo trimestrale, di modo che, come ha rilevato il giudice a quo, «[l]'effetto dell'ACT» su una società che avesse scelto di distribuire dividendi «[era] perciò di anticipare la data del pagamento della CT dovuta di un periodo che varia dagli otto mesi e mezzo (nel caso di distribuzione effettuata l'ultimo giorno di un periodo contabile) a un anno e cinque mesi e mezzo (se la distribuzione è effettuata il primo giorno del periodo contabile)». Inoltre, nell'ordinanza di rinvio si rileva anche che, qualora la CT base non risultasse dovuta per il periodo considerato, «l'ACT [avrebbe potuto] essere imputata ai profitti di periodi successivi, nel qual caso l'anticipo [sarebbe] stato effettuato per un periodo più lungo e persino indefinito».

5. Tuttavia, il punto cruciale nella specie è l'esenzione dall'ACT di cui potevano fruire una consociata e la sua capogruppo che avessero optato per l'«imposizione degli utili a livello di gruppo» ai sensi dell'art. 247 dell'ICTA 1988. Tale regime era però aperto solo alle società delle quali l'una detenesse almeno il 51% dell'altra e che fossero entrambe stabilite nel Regno Unito. Esercitare tale diritto di scelta consentiva alla consociata (la contribuente) di non versare l'ACT sui dividendi pagati alla sua capogruppo, a meno di non aver comunicato che non intendeva avvalersi di tale opzione per uno specifico dividendo. La domanda di ammissione al beneficio del regime d'imposizione a livello di gruppo doveva essere presentata ad un ispettore delle imposte. Qualora la domanda fosse stata respinta, la società interessata poteva ricorrere agli Special o General Commissioners, da cui il ricorso in punto di legittimità passava alla High Court of Justice (in Inghilterra e Galles).

6. La domanda in subordine presentata nella causa a qua ha ad oggetto il diritto ad un credito d'imposta sull'ACT pagata. Ai sensi dell'art. 231, n. 1, dell'ICTA 1988, il pagamento dell'ACT da parte di una consociata sui dividendi distribuiti alla sua capogruppo attribuiva a quest'ultima un credito d'imposta, a condizione ch'essa fosse stabilita nel Regno Unito. L'importo del credito d'imposta era pari a quello dell'ACT versata dalla consociata. Tale credito d'imposta poteva essere utilizzato dalla capogruppo per dedurre l'ACT ch'essa era tenuta a versare al momento delle distribuzioni agli azionisti; ciò significa ch'essa avrebbe dovuto pagare l'ACT solo sull'eccedenza di tali dividendi rispetto a quelli ricevuti dalla sua consociata. Qualora una società stabilita nel Regno Unito, ma del tutto esente dalla CT base, avesse ricevuto un dividendo da una consociata sul quale era stata pagata l'ACT, essa avrebbe avuto diritto al rimborso di una somma pari al credito d'imposta.

7. A norma dell'art. 208 dell'ICTA 1988, «[...la CT non era] dovuta sui dividendi o su altre distribuzioni di una società stabilita nel Regno Unito, e non [occorreva] tenere conto di detti dividendi o distribuzioni per il calcolo del reddito ai fini [della CT]». D'altro canto, le società non stabilite nel Regno Unito, o che non operassero nel Regno Unito attraverso una filiale o un'agenzia, seppure non assoggettabili alla CT, in linea di principio erano assoggettate all'imposta sul reddito nel Regno Unito per i profitti di origine britannica, che comprendevano i dividendi pagati da società stabilite nel Regno Unito. Tuttavia, ai sensi dell'art. 233, n. 1, dell'ICTA 1988, qualora una società non stabilita nel Regno Unito, capogruppo di una consociata avente sede nel Regno Unito non potesse vantare un credito d'imposta in relazione a detto dividendo, essa non era neanche soggetta all'imposta sul reddito nel Regno Unito, per tale distribuzione. Per contro, qualora detta società potesse vantare un credito d'imposta in forza di una convenzione sulla doppia imposizione conclusa tra il Regno Unito ed il suo Stato di stabilimento, essa era assoggettata ad imposta sul reddito nel Regno Unito per i dividendi ricevuti dalle sue consociate stabilite nel Regno Unito.

8. La convenzione anglo-tedesca sulla doppia imposizione del 26 novembre 1964, come modificata il 23 marzo 1970, non conferisce un diritto ai crediti d'imposta alle società stabilite in Germania che possiedono azioni di società stabilite nel Regno Unito e ricevono da queste distribuzioni di utili. Pertanto, ai sensi del diritto britannico, una società capogruppo tedesca non è soggetta ad imposta per i dividendi ricevuti dalla sua controllata stabilita nel Regno Unito e quindi non può vantare un credito d'imposta. Tuttavia, alcune convenzioni sulla doppia imposizione tra il Regno Unito e alcuni Stati membri dell'UE ed alcuni paesi terzi riconoscono alle società capogruppo stabilite nell'altro paese un credito d'imposta almeno parziale . Ai sensi della convenzione sulla doppia imposizione tra i Paesi Bassi ed il Regno Unito, invocata dalle ricorrenti nella causa a qua, l'imposta per le società capogruppo stabilite nei Paesi Bassi ammontava, all'epoca dei fatti, al 5% di ciò che può opportunamente definirsi l'«importo lordo» del dividendo, ossia la somma della metà del credito d'imposta e del dividendo .

B - I fatti e le questioni pregiudiziali

9. Le società parti nella causa C-397/98 sono la Metallgesellschaft Limited, la Metal and Commodity Company Limited, entrambe società di diritto britannico stabilite nel Regno Unito, la Metallgesellschaft AG e la Metallgesellschaft Handel & Beteiligungen AG, entrambe società di diritto tedesco stabilite nella Repubblica federale di Germania (in prosieguo: la «Metallgesellschaft e a.»). Le società parti nella causa C-410/98 sono la Hoechst AG, società di diritto tedesco stabilita in Germania, e la sua controllata britannica, la Hoechst UK Ltd (in prosieguo: la «Hoechst»). La Metallgesellschaft Limited, la Metal and Commodity Company Limited e la Hoechst UK Ltd (in prosieguo: le «controllate britanniche») hanno tutte pagato, in periodi compresi tra il 1975 ed il 1995, l'ACT sui dividendi distribuiti alle loro capogruppo tedesche .

10. Nella causa a qua, entrambi i gruppi di società (in prosieguo congiuntamente indicate come le «ricorrenti») hanno proposto ricorso nel 1995 dinanzi al giudice a quo, affermando che le loro controllate britanniche erano state penalizzate dal punto di vista della liquidità rispetto alle controllate di società capogruppo stabilite nel Regno Unito, in quanto, a differenza di queste, che potevano fruire di un regime d'imposizione a livello di gruppo, esse non potevano optare per siffatto regime. Le ricorrenti fanno valere in via principale che tale svantaggio costituisce una discriminazione contraria agli artt. 6 e 52 del Trattato CE (divenuti, in seguito a modifica, artt. 12 CE e 43 CE). Con un capo in subordine di detto motivo, le ricorrenti affermano che il rifiuto controverso di riconoscere loro il diritto di optare per il regime d'imposizione a livello di gruppo è in contrasto con l'art. 73 B del Trattato CE (divenuto art. 56 CE). Con il secondo motivo, in subordine, le ricorrenti fanno valere che le società capogruppo dovrebbero poter vantare un credito d'imposta corrispondente, almeno in parte, all'ACT pagata dalle controllate britanniche. Esse chiedono, con la loro domanda, il risarcimento dei danni ovvero un indennizzo per il mancato utilizzo dei capitali nei periodi compresi tra i pagamenti dell'ACT e la data in cui era dovuta la CT base, da cui venivano detratti tali pagamenti.

11. I convenuti nei procedimenti principali (i Commissioners of Inland Revenue e l'Attorney General) affermano che l'ACT era intesa a garantire che la società che distribuiva i dividendi pagasse una somma corrispondente al credito d'imposta o all'esenzione fiscale concessi agli azionisti. Qualora le controllate stabilite nel Regno Unito di società capogruppo stabilite all'estero avessero potuto distribuire utili senza versare l'ACT, ciò avrebbe agevolato l'evasione fiscale, in quanto né la capogruppo né la controllata avrebbero dovuto versare l'ACT, mentre, per contro, nel caso di una società capogruppo stabilita nel Regno Unito, l'ACT sarebbe stata esigibile nel momento in cui fosse stata effettuata una distribuzione da parte loro al di fuori del gruppo. Pertanto, era giustificata una distinzione basata sul luogo di stabilimento della società capogruppo di una controllata. Per quanto riguarda il motivo in subordine relativo al credito d'imposta, il fatto che nessuna disposizione della convenzione anglo-tedesca sulla doppia imposizione preveda crediti d'imposta mentre siffatte disposizioni esistono in alcune altre convenzioni rispecchia le differenze tra il sistema fiscale tedesco e quello degli altri paesi interessati, nonché il risultato degli accordi generali stipulati tra le parti delle varie convenzioni sulla doppia imposizione. I convenuti negano inoltre che un'eventuale violazione del diritto comunitario dia origine ad un diritto ad agire per il risarcimento dei danni. Inoltre, essi sostengono che, ai sensi del diritto britannico, il pagamento degli interessi non può essere chiesto nell'ambito di una domanda di risarcimento dei danni o di rimborso qualora, come nella specie, non sia dovuta alcuna somma a titolo principale.

12. Il giudice a quo dichiara che è pacifico quanto segue:

- le norme pertinenti del Regno Unito stabiliscono che l'opzione per un'imposizione a livello di gruppo può essere effettuata solo nel caso in cui la capogruppo e la controllata abbiano entrambe sede nel Regno Unito;

- le ricorrenti non hanno mai optato per la tassazione degli utili a livello di gruppo, ma è verosimile che avrebbero effettuato tale opzione se avessero ritenuto che, in forza del diritto comunitario, l'opzione fosse offerta anche alla società capogruppo non stabilita nel Regno Unito;

- se avessero tentato di esercitare tale diritto, la relativa domanda sarebbe stata respinta dall'Ispettore delle imposte in base al motivo che le capogruppo non avevano sede nel Regno Unito, ma esse avrebbero potuto impugnare tale decisione;

- prima della definizione di un eventuale ricorso del genere, le ricorrenti avrebbero comunque dovuto versare l'ACT per ogni dividendo distribuito, pena sanzioni finanziarie comprendenti l'irrogazione di eventuali ammende previste dalla legge (qualora si fosse ritenuto che avevano agito con negligenza e senza plausibili motivi atti a giustificare il mancato versamento dell'imposta sui dividendi pagati);

- non sarebbe esistito alcun diritto di rimborso dell'ACT ai sensi della normativa nazionale nemmeno nel caso in cui il suddetto ricorso fosse stato accolto .

13. Sono state sottoposte alla Corte le seguenti questioni:

«1) Se, nelle circostanze esposte nell'ordinanza di rinvio, sia compatibile con il diritto comunitario, in particolare con gli artt. 6, 52, 58 e/o 73 B del Trattato CE, che la normativa di uno Stato membro consenta un'opzione per la tassazione degli utili a livello di gruppo [grazie alla quale i dividendi vengono pagati da una controllata alla sua capogruppo senza essere contabilizzati ai fini dell'anticipo dell'imposta sulle società ("ACT")] solo nel caso in cui entrambe le società siano stabilite in tale Stato membro.

2) Qualora la soluzione della prima questione sia negativa, se le suddette disposizioni del Trattato CE attribuiscano ad una società controllata, stabilita in tale Stato membro, di una capogruppo stabilita in un altro Stato membro e/o alla detta società capogruppo il diritto di esigere una somma di denaro a titolo di interessi sull'ACT, che la controllata ha versato perché la normativa nazionale non le consentiva di optare per la tassazione degli utili a livello di gruppo, oppure se tale somma possa semmai essere pretesa soltanto attraverso un'azione di risarcimento danni ai sensi dei principi stabiliti dalla Corte di giustizia nella sentenza 5 marzo 1996, cause riunite C-46/93 e C-48/93, Brasserie du pêcheur e Factortame e a. (Racc. pag. I-1029 ), e nella sentenza 22 aprile 1997, causa C-66/95, Sutton (Racc. pag. I-2163) , e, in entrambi i casi, se il giudice nazionale sia obbligato a provvedere nel senso richiesto anche se, ai sensi della normativa nazionale, non possono essere riconosciuti interessi (sia direttamente sia mediante restituzione o risarcimento) su capitali che non siano più dovuti alla ricorrente.

3) Se, nelle circostanze esposte nell'ordinanza di rinvio, sia compatibile con le suddette disposizioni del Trattato CE il fatto che le autorità di uno Stato membro neghino qualsiasi credito d'imposta ad una società stabilita in un altro Stato membro mentre concedono tali crediti a società stabilite nel Regno Unito e a società stabilite in taluni altri Stati membri in base alle convenzioni sulla doppia imposizione stipulate con tali altri Stati membri.

4) Qualora la soluzione della terza questione sia negativa, se il primo Stato membro sia e fosse obbligato, nel periodo di cui trattasi, a concedere un credito d'imposta a tale società alla stessa stregua delle società stabilite nel Regno Unito o delle società stabilite negli Stati membri che prevedono tali crediti nelle loro convenzioni sulla doppia imposizione.

5) Se uno Stato membro, in risposta a tale richiesta di rimborso, di credito d'imposta o risarcimento danni, possa invocare il fatto che le ricorrenti non hanno diritto al recupero, o che la richiesta delle ricorrenti dovrebbe essere ridotta, poiché, nonostante il testo della legge nazionale vietasse loro di agire in tal senso, esse avrebbero dovuto effettuare una opzione per la tassazione degli utili a livello di gruppo, o esigere un credito d'imposta, presentando ricorso ai "Commissioners" e, se necessario, al giudice competente contro la decisione dell'"Inspector of Taxes", di non autorizzare l'esercizio dell'opzione per la tassazione degli utili a livello di gruppo o di respingere la domanda di credito d'imposta, richiamandosi alla preminenza e all'effetto diretto delle disposizioni del diritto comunitario».

II - Osservazioni

14. Hanno presentato osservazioni scritte e orali le ricorrenti, il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, il Regno dei Paesi Bassi e la Commissione. Inoltre, la Repubblica di Finlandia ha presentato osservazioni scritte, mentre la Repubblica d'Austria e la Repubblica francese, nonché la Repubblica federale di Germania, hanno presentato osservazioni orali. Le osservazioni delle ricorrenti, del Regno Unito, della Finlandia e della Commissione trattano i vari punti sollevati dalle questioni deferite. I Paesi Bassi hanno presentato osservazioni in merito alla prima ed alla terza questione, relative all'imposizione fiscale a livello di gruppo e ai crediti d'imposta, mentre l'Austria, la Francia e la Germania hanno limitato le loro osservazioni orali alla terza questione.

III - Panoramica

15. Il motivo principale delle ricorrenti è che l'esclusione delle controllate britanniche dalla possibilità di optare per il regime dell'imposizione a livello di gruppo per il fatto che le loro società capogruppo sono stabilite in Germania era incompatibile con la libertà di stabilimento garantita dagli artt. 52 (divenuto, in seguito a modifica, art. 43 CE) e 58 del Trattato CE (divenuto art. 48 CE) . E' chiaro anche che le ricorrenti basano tale motivo principalmente sull'art. 52 del Trattato CE e non sulle disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione dei capitali. Pertanto, occorre esaminare anzitutto se il fatto di limitare un'esenzione, quale il regime di imposizione a livello di gruppo, alle società stabilite nel Regno Unito sia compatibile con il diritto comunitario.

IV - Sulla prima questione e sul regime d'imposizione a livello di gruppo

A - Sintesi delle osservazioni

16. Le ricorrenti fanno valere che gli Stati membri devono esercitare la loro sovranità in materia di fiscalità diretta coerentemente con i principi fondamentali del diritto comunitario. Il fatto di negare il beneficio del regime di imposizione a livello di gruppo dissuade le società estere dall'istituire controllate nel Regno Unito ed è incompatibile con la libertà di stabilimento garantita dal Trattato. Ponendo le controllate di società straniere sullo stesso piano delle società stabilite nel Regno Unito ai fini dei loro obblighi in materia di CT, il Regno Unito ha ammesso che tra dette società non esistono differenze oggettive che giustifichino una disparità di trattamento rispetto ad un'agevolazione fiscale quale l'imposizione a livello di gruppo . E' irrilevante il fatto che si possa evitare l'ACT istituendo succursali o agenzie anziché controllate, in quanto gli artt. 52 e 58 del Trattato prescrivono che gli operatori devono essere liberi di scegliere la forma giuridica adeguata in cui esercitare il diritto di stabilimento . La disparità di trattamento non è giustificata dall'esigenza di impedire l'evasione fiscale, in quanto la concessione del diritto di optare per un regime di imposizione di gruppo avrebbe l'unico effetto di differire l'obbligo della controllata di pagare l'imposta sino a quando la CT base non divenga esigibile, ma non lo eliminerebbe. Il fatto che una società stabilita all'estero non debba pagare l'ACT allorché versa successivamente un dividendo, in quanto non è assoggettata alla CT britannica, mentre tale versamento da parte di una società stabilita nel Regno Unito sarebbe soggetto all'imposta, non giustifica la disparità di trattamento: in primo luogo, non vi è evasione fiscale, in quanto la prima società sarebbe soggetta alla legislazione fiscale dello Stato in cui è stabilita ; in secondo luogo, l'eventuale riduzione del gettito fiscale di uno Stato membro non costituisce né un motivo previsto all'art. 56 del Trattato CE (divenuto, in seguito a modifica, art. 46 CE), né una ragione imperativa d'interesse generale atta a giustificare una disparità di trattamento contraria all'art. 52 .

17. Inoltre, la negazione dell'imposizione a livello di gruppo non è giustificata da motivi di coerenza fiscale. Nelle sentenze Bachmann e Commissione/Belgio esisteva un «nesso diretto» tra la detrazione fiscale di determinati contributi e la tassazione di somme dovute dalle assicurazioni nell'ambito di polizze assicurative contro malattia e invalidità o contro vecchiaia e morte. Nel diritto fiscale belga, la riduzione del gettito fiscale dovuta alla detrazione concessa per i redditi imponibili era compensata dalla riscossione di somme dovute nell'ambito di dette polizze assicurative per lo stesso soggetto passivo. Non vi è alcun nesso del genere tra l'applicazione del regime di imposizione a livello di gruppo da parte di una controllata per un dividendo pagato alla sua capogruppo ed il pagamento dell'ACT da parte di quest'ultima sull'ulteriore distribuzione di una somma equivalente effettuata al di fuori del regime di imposizione a livello di gruppo. La controllata è sempre soggetta alla CT britannica. Le ricorrenti hanno posto in rilievo le disposizioni diverse in vigore in Irlanda per le società capogruppo stabilite all'estero . Esse fanno valere che il rifiuto generalizzato del Regno Unito di concedere l'opzione a gruppi con società capogruppo stabilite all'estero era sproporzionato.

18. Il Regno Unito fa valere che la disparità di trattamento per quanto riguarda il regime di imposizione a livello di gruppo è giustificata dall'esigenza di preservare la coerenza del proprio sistema fiscale. Il principio è che i profitti delle società sono soggetti a CT, mentre i loro azionisti devono essere assoggettati ad imposta sul reddito ogni qual volta vengano loro distribuiti profitti sotto forma di dividendi. Poiché l'applicazione diretta di tale principio comporterebbe una doppia imposizione sugli stessi profitti, una prima volta in capo alle società ed una seconda volta in capo all'azionista, è stato adottato il sistema dell'imputazione parziale, introdotto nel 1973 e ripreso nell'ICTA 1988. Tale sistema attenua siffatta doppia imposizione esonerando le società azioniste stabilite nel Regno Unito dalla CT sui dividendi ricevuti. Poiché una società può conseguire profitti che possono essere distribuiti ed effettuare distribuzioni senza realizzare utili imponibili, al fine di garantire che l'esenzione fiscale per il dividendo pagato alla società azionista sia compensata con un'imposta, la società che distribuisce i dividendi dev'essere assoggettata all'ACT. Ciò garantisce che, prima che sia concessa qualsiasi esenzione o attenuazione all'azionista, esista l'obbligo di pagare un'imposta in capo alla società che distribuisce i dividendi . Di conseguenza, secondo il Regno Unito, vi è un «nesso chiaro e diretto tra l'esenzione fiscale concessa per i dividendi versati agli azionisti e l'assoggettamento all'ACT equivalente», mentre «la logica alla base della concessione di un regime di imposizione a livello di gruppo per i dividendi versati da una controllata ad una capogruppo o viceversa è che tali distribuzioni corrispondano di fatto a trasferimenti interni ad una singola entità economica (anche qualora si tratti di due società)» . D'altro canto, l'esenzione dall'imposta britannica sui dividendi versati da una società stabilita nel Regno Unito ad una società stabilita all'estero viene compensata mediante assoggettamento all'ACT.

19. Il Regno Unito, sostenuto dalla Finlandia e dai Paesi Bassi, afferma che la disparità di trattamento tra i gruppi le cui capogruppo sono stabilite sul territorio nazionale e quelli le cui capogruppo non sono stabilite sul territorio nazionale, per quanto riguarda il regime di imposizione a livello di gruppo, è oggettivamente giustificata in quanto la posizione dei due gruppi di società non è comparabile; nel caso in cui la capogruppo sia stabilita nel Regno Unito, l'esenzione dall'ACT in occasione di una distribuzione effettuata dalla controllata (che compensa l'esenzione fiscale del dividendo pagato alla capogruppo) è a sua volta compensata mediante assoggettamento ad ACT in occasione di una distribuzione effettuata dalla capogruppo, mentre, nel caso di società capogruppo non stabilite nel territorio nazionale, l'esenzione dall'ACT al momento di una distribuzione effettuata dalla controllata non è compensata da alcun pagamento corrispondente. Pur riconoscendo che potrebbe essere applicato un sistema diverso, il Regno Unito nega che la limitazione della possibilità di optare per il regime di imposizione a livello di gruppo sia sproporzionata. Nella causa Bachmann sarebbe stato possibile che le norme tributarie belghe autorizzassero i cittadini di altri Stati membri a detrarre i contributi di assicurazione sulla vita pagati in altri Stati membri, anche se così in Belgio non sarebbe stata pagata alcuna imposta sulle somme debitamente versate dalle assicurazioni . Ciò nonostante la Corte ha riconosciuto il diritto del Belgio di configurare il proprio sistema fiscale. La scelta normativa del Regno Unito rientra tra le scelte legittime che il diritto comunitario lascia agli Stati membri.

20. La Commissione afferma che la disparità di trattamento è ingiustificata. La semplice volontà di garantire che i profitti della controllata britannica di una capogruppo non stabilita nel Regno Unito siano soggetti ad una determinata imposta minima britannica non giustifica il fatto che a dette controllate venga imposto di versare l'ACT prima della data normale di versamento della CT base. L'ACT è un pagamento anticipato della CT, ma le società capogruppo non aventi sede sul territorio nazionale non sono assoggettate alla CT britannica. Un regime di imposizione a livello di gruppo non autorizza una controllata ad eludere la CT base britannica e la concessione della possibilità di accedere a detto regime alle controllate di capogruppo non aventi sede sul territorio nazionale quindi non agevolerebbe l'evasione fiscale. Non vi è riduzione del gettito fiscale per le autorità tributarie del Regno Unito per quanto riguarda i profitti delle controllate, dato che il differimento dell'ACT inerente al regime dell'imposizione a livello di gruppo solleva la controllata solo dall'obbligo di pagare acconti sulla CT. Il semplice vantaggio economico per il Regno Unito consistente nel ricevere in anticipo tali pagamenti della CT, in modo da compensare il fatto che successivamente non verrà versata alcuna ACT dalle società capogruppo non stabilite nel Regno Unito sui dividendi ricevuti dalle controllate britanniche, non è atto a giustificare tale discriminazione .

B - Analisi

21. La Corte ha costantemente sottolineato che «se è pur vero che la materia delle imposte dirette rientra nella competenza degli Stati membri, questi ultimi devono tuttavia esercitare tale competenza nel rispetto del diritto comunitario» . Le questioni sollevate dalla presente causa sostanzialmente sono dirette a stabilire se il Regno Unito abbia rispettato i limiti imposti dal diritto comunitario alla sua competenza in materia di imposte dirette limitando l'accesso al regime dell'imposizione a livello di gruppo per quanto riguarda l'ACT alle società stabilite nel Regno Unito.

i) Gettito fiscale

22. Condivido l'argomento delle ricorrenti secondo cui il fatto di estendere il diritto alla tassazione a livello di gruppo alle controllate britanniche di società non stabilite nel Regno Unito non incentiverebbe l'evasione o la frode fiscale. E' chiaro che l'ACT non è altro che un pagamento anticipato della CT base. La scelta di un regime di imposizione a livello di gruppo da parte di società controllate di capogruppo non stabilite sul territorio nazionale consentirebbe semplicemente a dette società di beneficiare della stessa agevolazione in termini di liquidità di cassa di cui beneficiano le contrallate di società stabilite nel Regno Unito. Per entrambi i tipi di controllate, i rispettivi profitti dovrebbero essere soggetti allo stesso modo alla CT base. A mio parere, consentire alle controllate di società non stabilite nel Regno Unito di optare per il regime di imposizione a livello di gruppo non agevolerebbe l'evasione dell'ACT da parte delle capogruppo. Poiché una società capogruppo non stabilita nel Regno Unito non è assoggettata alla CT britannica, essa non dovrebbe essere tenuta nemmeno a versare l'ACT. La situazione delle società capogruppo stabilite all'interno del paese e quella delle capogruppo stabilite all'estero non sono obiettivamente comparabili. Le prime sono tenute a pagare l'ACT se e solo se effettuano una distribuzione per il valido motivo che sono tenute a pagare la CT base britannica sui propri profitti, mentre le seconde non sono tenute a versare la CT britannica ma sono assoggettate alla legislazione tributaria del paese in cui sono stabilite. La rilevanza di questo elemento è stata riconosciuta nella sentenza ICI, in cui la Corte ha anche respinto inequivocabilmente l'argomento dedotto dal Regno Unito in detta causa, secondo cui una riduzione del gettito fiscale può giustificare la disparità di trattamento nei confronti di controllate non residenti .

23. Inoltre, il fatto di autorizzare la controllata di una capogruppo non stabilita nel Regno Unito ad optare per il regime di tassazione a livello di gruppo non equivarrebbe a concedere una «esenzione» dall'ACT. E' improprio parlare di «esenzione» . In realtà, la CT britannica è dovuta dalla controllata della società capogruppo stabilita all'estero, ma i profitti di quest'ultima non sono soggetti alla CT britannica. Il fatto che le società capogruppo stabilite nel Regno Unito possano, in alcuni casi, essere tenute a pagare l'ACT sulle eccedenze dei loro dividendi rispetto a quelli ricevuti dalle proprie controllate non può giustificare il fatto di imporre alle controllate britanniche di società stabilite all'estero di versare sempre l'ACT qualora che decidano di pagare dividendi alle loro società capogruppo. Come ho già rilevato al paragrafo precedente, ciò discende dalla loro situazione oggettivamente diversa, ossia dal fatto ch'esse, ai fini fiscali, sono stabilite nel Regno Unito.

24. Il Regno Unito ritiene che l'applicazione di un regime di tassazione a livello di gruppo ai dividendi pagati nell'ambito del gruppo stesso ha l'effetto di trasformare tali dividendi in semplici «trasferimenti interni», con la conseguenza che l'ACT gravante sulla controllata viene trasferita alla capogruppo ogni qual volta un dividendo viene versato al di fuori del gruppo. Poiché una società capogruppo stabilita all'estero non sarebbe assoggettata all'ACT neanche se, nell'ambito di un regime di tassazione a livello di gruppo, l'ACT dovuta dalla sua controllate fosse stata traslata su di lei, a parere del Regno Unito è possibile mantenere distinta questa posizione da quella delle società controllata e capogruppo stabilite nel Regno Unito. I Paesi Bassi esprimono questo parere in modo diverso, richiamandosi al principio di territorialità, che, a loro avviso, verrebbe violato qualora si imponesse ad uno Stato membro di trattare una società stabilita in un altro Stato membro che non opera sul suo territorio come se facesse parte di un gruppo fiscale di detto Stato. Secondo i Paesi Bassi, i profitti e le perdite devono poter essere trasferiti soltanto tra i membri di un gruppo stabiliti nello stesso Stato membro.

25. Tali considerazioni effettivamente equivalgono ad affermare che la disparità di trattamento nei confronti di controllate di società stabilite all'estero è giustificata dal fatto che i loro profitti non sono soggetti alla CT britannica. Tale differenza tra le rispettive posizioni fiscali delle società capogruppo non giustifica, a mio avviso, che si neghi alle controllate regolarmente stabilite nel Regno Unito, e quindi assoggettate al pagamento dell'imposta, un'agevolazione fiscale di cui possono beneficiare le controllate comparabili di società capogruppo britanniche.

ii) Coerenza fiscale

26. Il Regno Unito si richiama principalmente alle sentenze Bachmann e Commissione/Belgio per giustificare il suo rifiuto di autorizzare le controllate di società stabilite all'estero ad optare per il regime della tassazione a livello di gruppo, invocando l'esigenza di preservare la coerenza del suo sistema fiscale. Nella causa da ultimo citata, una norma tributaria belga operava una distinzione tra i contributi versati a società di assicurazione belghe ed i contributi versati ad altre società di assicurazione stabilite all'estero. Soltanto i contributi versati a società di assicurazione stabilite all'interno del paese potevano essere detratti dalle imposte. La riduzione del gettito fiscale che ne risultava per il Belgio veniva compensata assoggettando i capitali o i valori di riscatto delle polizze in oggetto ad un'imposta che non era dovuta qualora non vi fosse stata alcuna detrazione di contributi. Il Belgio ha giustificato tale disparità di trattamento dei contributi di assicurazione richiamandosi all'esigenza di garantire la coerenza del suo regime fiscale. In particolare, non poteva avere la certezza che l'imposta sui capitali potesse essere riscossa su società di assicurazione non residenti.

27. La Corte ha accolto questo argomento. Ha dichiarato che «[l]a coerenza di siffatto regime fiscale (...) presuppone (...) che, nell'ipotesi in cui sia obbligato ad ammettere la detrazione dei contributi d'assicurazione sulla vita versati in un altro Stato membro, lo Stato in questione possa percepire l'imposta sulle somme dovute dagli assicuratori» . La Corte non era persuasa che l'impegno di un assicuratore di pagare l'imposta in questione potesse costituire «una garanzia sufficiente» , in quanto tale impegno avrebbe probabilmente dovuto essere accompagnato dal deposito di una cauzione, il che avrebbe dato «luogo ad un onere finanziario supplementare per quest'ultimo» che avrebbe dovuto essere ripercosso sui premi di assicurazione ed avrebbe probabilmente dissuaso i lavoratori migranti dal mantenere le loro polizze in corso trasferendosi in Belgio. La Corte, pur riconoscendo che convenzioni bilaterali volte a ripartire le competenze tra gli Stati membri in materia tributaria o regole di imposizione diretta armonizzate a livello comunitario avrebbero potuto fugare i timori del Belgio, ha concluso che, a quello stato del diritto comunitario, «la coerenza del regime fiscale in questione non [poteva] essere dunque preservata da disposizioni meno restrittive di quelle di cui si tratta[va] nella causa principale (...)» .

28. Nella sentenza Bachmann la Corte non ha definito la nozione di coerenza fiscale, e si tratta dell'unica causa in cui uno Stato membro ha invocato con successo tale nozione per difendere una disposizione nazionale altrimenti incompatibile con una delle disposizioni fondamentali del Trattato. La causa Wielockx costituiva, a prima vista, un caso ragionevolmente equiparabile a quello della causa Bachmann. Nei Paesi Bassi, i contribuenti residenti, ma non quelli non residenti, potevano dedurre accantonamenti diretti a formare una riserva di vecchiaia. I versamenti effettuati nell'ambito della liquidazione della riserva o effettuati periodicamente mediante prelievo dalla stessa venivano considerati come redditi ed erano soggetti ad imposta. I Paesi Bassi si basavano, tra l'altro, sulla convenzione Paesi Bassi-Belgio in materia di doppia imposizione, in virtù della quale tale reddito era imponibile solo nello Stato di residenza, per affermare che la coerenza del loro regime fiscale sarebbe stata compromessa qualora residenti belgi, come il signor Wielockx, avessero potuto detrarre dalle loro imposte olandesi gli accantonamenti per la riserva. La Corte ha dichiarato che secondo il principio della coerenza fiscale esaminato nella sentenza Bachmann doveva sussistere «una correlazione tra le somme dedotte dalla base imponibile e quelle soggette ad imposta» . La Corte ha rilevato che per effetto delle convenzioni contro le doppie imposizioni, lo Stato di residenza assoggettava ad imposta tutte le pensioni percepite dai residenti sul suo territorio, indipendentemente dallo Stato in cui fossero stati versati i contributi, ma, al contrario, rinunciava ad assoggettare ad imposta le pensioni percepite all'estero, anche laddove esse derivassero da contributi versati sul suo territorio e considerati detraibili. La Corte ha dichiarato che «[l]a coerenza fiscale non [era] quindi affermata a livello di uno stesso soggetto, sulla base di una correlazione rigorosa tra la detraibilità dei contributi e l'imponibilità delle pensioni, bensì si sposta[va] su un altro livello, vale a dire quello della reciprocità delle norme applicabili negli Stati contraenti» . Qualora la coerenza fiscale sia garantita sulla base di una convenzione bilaterale conclusa con un altro Stato membro, «tale principio non può essere invocato al fine di giustificare il diniego di una detrazione del genere di cui trattasi» .

29. Un'analoga impostazione rigorosa è stata adottata un anno più tardi, in una situazione fiscale diversa, nella sentenza Asscher . Le autorità fiscali olandesi hanno cercato di giustificare l'applicazione di un'aliquota base (primo scaglione) d'imposta maggiorata sul reddito dei contribuenti non residenti rispetto ai residenti. Un'aliquota d'imposta meno favorevole per i non residenti non poteva essere giustificata facendo valere che i contributi previdenziali non erano più deducibili nei Paesi Bassi, il che non avveniva necessariamente negli altri Stati membri. La Corte ha dichiarato che non esisteva «un simile nesso diretto tra, da un lato, a livello fiscale, l'applicazione di un'aliquota d'imposta maggiorata al reddito di taluni non residenti che percepiscono meno del 90% del loro reddito globale nei Paesi Bassi e, dall'altro, la mancata riscossione di contributi sociali di cui beneficia la parte del reddito di questi non residenti prodotta nei Paesi Bassi» . Nella sentenza ICI la Corte ha respinto l'argomento del Regno Unito secondo cui la coerenza fiscale imponeva che uno sgravio fiscale, in virtù del quale le società facenti parte di un consorzio potevano dedurre dagli utili imponibili le perdite subite da controllate di una società da esse detenuta, fosse limitato ai casi in cui la maggioranza di tali controllate fosse stabilita nel Regno Unito . Da tale giurisprudenza emerge che una mera minaccia per il gettito fiscale di uno Stato membro non può essere presa in considerazione ai fini della coerenza fiscale nel senso ammesso dalla Corte.

30. Le norme nazionali intese ad attenuare la doppia imposizione sulla stessa attività economica o su un'attività simile hanno condotto gli Stati membri a concedere determinate agevolazioni fiscali generalmente limitate ai singoli o alle società residenti. Il perseguimento di tale politica, chiaramente legittima ed auspicabile in sé, è alla base di tre delle più recenti sentenze in materia di coerenza fiscale. Il problema è che gli Stati membri, negando le agevolazioni ai non residenti, rifiutano di tenere conto delle imposte estere che questi ultimi sono tenuti a versare.

31. La causa Eurowings Luftverkehrs riguardava alcune norme fiscali tedesche in materia di commercio che riservavano agli operatori che prendevano in affitto beni economici da locatori non residenti un trattamento meno favorevole rispetto agli operatori che affittavano da locatori residenti. L'imposta sul commercio era determinata aggiungendo la metà del valore locativo dei beni ai fini del calcolo del reddito da locazione solo se il locatore non versava l'imposta sul commercio tedesca. Veniva addotto l'argomento relativo alla coerenza fiscale affermando che le norme in questione erano intese ad evitare solo il doppio pagamento dell'imposta tedesca, ossia non la duplicazione dell'imposta tedesca e quella di un altro Stato membro. La Corte ha dichiarato che esisteva solo un «nesso indiretto» tra l'agevolazione fiscale concessa al conduttore tedesco di un bene di proprietà di un locatore stabilito in Germania ed il trattamento fiscale sfavorevole imposto a tali locatori, sotto forma di assoggettamento ad imposta sul reddito da locazione . La causa Verkooijen verteva su un'esenzione parziale dall'imposta sul reddito personale concessa per i dividendi a condizione che le società che distribuivano i dividendi fossero stabilite nei Paesi Bassi . I Paesi Bassi ed altri Stati intervenienti hanno sostenuto la legittimità di limitare tale vantaggio ai casi in cui i dividendi venivano versati da società stabilite all'interno del paese. La doppia imposizione che le norme erano intese ad evitare erano l'imposta sulle società e l'imposta sul reddito sui medesimi profitti o redditi, e tale doppia imposizione non aveva luogo se la prima imposta veniva pagata in un altro Stato membro. La Corte ha dichiarato che non esisteva alcun «legame diretto», ma semmai «due imposte distinte che grava[va]no su contribuenti distinti» . Anche la causa Baars riguardava il diritto tributario olandese, nella specie l'imposta sul patrimonio . I contribuenti avevano diritto a determinate esenzioni solo su «partecipazioni sostanziali» in società stabilite nei Paesi Bassi. L'esclusione delle partecipazioni in società di altri Stati membri sollevava - con riferimento all'asserito obiettivo di evitare la doppia imposizione, ossia l'imposta sulle società ed un'imposta sul patrimonio che colpiva le quote dell'azionista - questioni molto simili a quelle sollevate dalla causa Verkooijen. La Corte, respingendo l'argomento a difesa, ha dichiarato che era «irrilevante (...) il fatto che le società stabilite nei Paesi Bassi [fossero] assoggettate in tale Stato membro all'imposta sulle società e che le società stabilite in un altro Stato membro non lo [fossero]» .

32. Le cause relative alla coerenza fiscale sono sorte con riferimento a tutte le libertà garantite dal Trattato le cause: le cause Bachmann e Asscher riguardavano la libera circolazione delle persone; le cause ICI e Baars riguardavano la libertà di stabilimento; la causa Eurowings riguardava un destinatario di servizi, mentre la causa Verkooijen riguardava la libera circolazione dei capitali. In tutte le suddette cause, salvo nella Bachmann, la Corte ha dichiarato che le norme nazionali in causa non potevano essere giustificate da alcuna ragione di coerenza fiscale. Le ultime tre cause citate riguardavano lo scopo di evitare una doppia imposizione, che era intesa solo nel senso di due imposte nazionali. In ognuna di tali cause, la Corte ha dichiarato che non esisteva un «nesso diretto» tra la differenza d'imposta ed il presunto obiettivo del sistema oppure che non vi era corrispondenza o che vi era una corrispondenza insufficiente tra i vari contribuenti e le imposte in discussione. E' chiaro che una mera riduzione del gettito fiscale dello Stato membro ospitante non può giustificare il rifiuto di estendere un determinato vantaggio alle società stabilite all'estero. Detto Stato membro deve tenere conto dell'assoggettamento di tali società stabilite all'estero ad imposte comparabili nel loro Stato membro di stabilimento. Pertanto, sembrerebbe che l'effettiva portata della coerenza fiscale in quanto giustificazione di una disparità di trattamento dei non residenti riguardi solo situazioni in cui esiste un rischio reale e grave che l'estensione del trattamento paritario per quanto riguarda un particolare vantaggio possa agevolare la frode fiscale sia nello Stato membro ospitante che in quello in cui risiede il contribuente non residente che ha chiesto di poterne fruire. Questa potrebbe essere stata la vera preoccupazione alla base della sentenza Bachmann, attualmente isolata .

33. In ogni caso, è chiaro che, affinché la difesa possa essere accolta, occorre che esista un nesso diretto e, sotto il profilo della riscossione della particolare imposta in questione, un nesso organico fondamentale tra la riscossione di tale imposta e l'esenzione o lo sgravio dalla stessa che, sebbene concesso al contribuente residente, viene negato al suo omologo non residente. A mio parere, nella specie questa stretta correlazione non esiste.

34. L'argomento dedotto dal Regno Unito è basato sull'ipotesi che un elemento dell'imposta sul reddito dell'azionista beneficiario è detratto dalla CT della società che distribuisce il dividendo. Il Regno Unito sostiene che l'elemento in questione si riflette in quella parte della CT della società distributrice dovuta in anticipo a titolo di ACT. Le autorità fiscali del Regno Unito affermano ch'esse chiedono di poter utilizzare in anticipo il gettito prodotto dalla riscossione dell'ACT sui dividendi pagati al fine di compensare tutti i successivi rimborsi dell'imposta sul reddito, imputata ai versamenti dell'ACT ch'esse devono effettuare a favore di taluni singoli azionisti che, pur ricevendo tali dividendi, non sono soggetti, per una ragione o per l'altra, all'imposta sul reddito britannica .

35. Non posso ammettere che tale argomento giustifichi il trattamento sfavorevole dei contribuenti non residenti. Esso è basato sull'errore di fondo consistente nel ritenere che l'ACT possa in qualche modo essere considerata come un'imposta distinta dalla CT base. Poiché è indubbio che sono soggette alla CT britannica sia le controllate di società capogruppo stabilite nel Regno Unito che quelle di capogruppo stabilite all'estero, la concessione alle une, ma non alle altre, di una significativa agevolazione fiscale non può essere giustificata da una differenza negli obblighi in materia di CT delle società capogruppo cui vengono pagati i dividendi. In altri termini, le posizioni oggettivamente diverse, per quanto riguarda la CT, delle società capogruppo stabilite nel Regno Unito rispetto a quelle stabilite altrove non può giustificare l'imposizione di una CT effettivamente superiore soltanto per le controllate di queste ultime.

36. Inoltre, per quanto riguarda i singoli azionisti di dette società capogruppo stabilite in altri Stati membri e, di conseguenza, soggetti alle normative fiscali di detti Stati, nessun elemento del fascicolo sembra indicare che le autorità del Regno Unito abbiano mai dovuto rimborsare imposte sui redditi. Nel caso delle società capogruppo stabilite all'estero, che pagano dividendi ai singoli azionisti sui profitti ad esse distribuiti dalle controllate stabilite nel Regno Unito, esisterebbe tutt'al più un nesso remoto tra il fatto di concedere l'accesso al regime della tassazione a livello di gruppo per gli obblighi fiscali delle controllate in termini di ACT ed eventuali domande di rimborso, da parte dagli azionisti delle società capogruppo, dell'elemento dell'imposta sui redditi (britannica) imputato ai dividendi pagati dalle controllate. Ciò vale a fortiori nella fattispecie in quanto i dividendi pagati dalle società capogruppo stabilite all'estero non determinano un credito d'imposta britannico per il semplice motivo che hanno essi stessi origine da dividendi distribuiti dalle controllate stabilite nel Regno Unito. Di conseguenza, non esiste un rischio reale e grave per la coerenza del regime fiscale britannico che possa giustificare la disparità di trattamento in questione.

37. Qualora la Corte non accogliesse questa proposta, il rifiuto puro e semplice di cui alla normativa britannica di estendere l'esenzione dall'ACT alle controllate di società stabilite all'estero, in ogni caso, sembra sproporzionato. Non condivido l'argomento del Regno Unito secondo cui, quando legittime preoccupazioni di coerenza fiscale siano sottese a una disparità di trattamento fiscale nei confronti dei non residenti, lo Stato membro interessato non è tenuto a considerare il fatto che possono esservi misure meno restrittive per conseguire tale coerenza. Di conseguenza, non sono d'accordo sull'affermazione secondo cui, in risposta ad una specifica censura di discriminazione contraria all'art. 52 del Trattato formulata contro la sua normativa, il Regno Unito non era tenuto ad esaminare l'adeguatezza delle norme meno restrittive applicate alle società capogruppo stabilite all'estero da un altro Stato membro (ossia l'Irlanda) che aveva configurato un regime di ACT molto simile.

38. In ogni caso, come afferma la Commissione, l'obiettivo sottostante all'ACT avrebbe potuto essere conseguito altrettanto agevolmente imponendo a tutte o ad alcune società l'obbligo generale di versare anticipatamente una determinata quota della loro CT. Infatti, come sottolineano le ricorrenti, si tratta appunto del sistema recentemente introdotto dal Regno Unito, almeno per le società di maggiori dimensioni, con gli artt. 30 e 31 del Finance Act 1998. Di conseguenza, il rifiuto di autorizzare le controllate di società capogruppo stabilite in altri Stati membri ad optare per un regime di tassazione a livello di gruppo ai fini dell'ACT travalicava palesemente quanto si sarebbe potuto giustificare con ragioni di coerenza fiscale del sistema attuato con l'ICTA 1988.

39. In base alle considerazioni che precedono, ritengo che limitare la concessione di un'agevolazione fiscale, quale l'esenzione dall'obbligo di effettuare pagamenti anticipati della CT, inerente ad un regime di imposizione a livello di gruppo, come quello in discussione nella causa a qua, sia incompatibile con l'art. 52 del Trattato CE.

40. In queste circostanze, ritengo che non occorra accertare se il trattamento sfavorevole, per quanto riguarda l'ACT, riservato alle società stabilite all'estero abbia costituito un ostacolo agli investimenti diretti nel Regno Unito di società stabilite in altri Stati membri ed abbia pertanto limitato la libera circolazione dei capitali. Come la Corte ha dichiarato chiaramente nella sentenza Bachmann, l'ex art. 67 (in seguito divenuto art. 73 B) del Trattato CE (divenuto art. 56 CE) «non vieta le restrizioni che non riguardano i trasferimenti di capitali, ma che sono la conseguenza indiretta di restrizioni riguardanti altre libertà fondamentali» . Concordo con il parere espresso dall'avvocato generale Tesauro nelle conclusioni relative alla causa Safir , secondo cui, quando la libera circolazione dei capitali ed altre libertà fondamentali sancite dal Trattato siano potenzialmente violate da una specifica norma nazionale, la Corte dovrebbe esaminare la prima solo se «la misura in esame ostacola direttamente il trasferimento di capitali, rendendolo impossibile o più difficoltoso, ad esempio richiedendo l'obbligo di un'autorizzazione (...)» . Tale parere è stato implicitamente accolto dalla Corte, la quale, dopo aver constatato che l'imposta controversa sui contratti di assicurazione sulla vita conclusi con assicuratori non stabiliti in Svezia era incompatibile con l'art. 59 del Trattato CE (divenuto, in seguito a modifica, art. 49 CE), ha dichiarato che «non occorre[va] esaminare se una siffatta normativa [fosse] parimenti incompatibile con gli artt. 6, 73 B e 73 D del Trattato» . A mio parere, poiché una restrizione come quella in discussione nella causa a qua è incompatibile con la libertà di stabilimento, non occorre accertare se essa costituisca anche una restrizione agli investimenti stranieri diretti nel Regno Unito.

V - Sulla seconda questione e sul rimedio adeguato

41. La seconda questione deferita dal giudice a quo solleva due problemi distinti, dei quali il primo presenta due alternative. Il giudice a quo chiede anzitutto quale mezzo di ricorso debba essere concesso ai contribuenti, come le ricorrenti, qualora abbiano ragione a sostenere che le controllate di società capogruppo stabilite all'estero sono vittime di una discriminazione in quanto viene loro negato il vantaggio consistente nella possibilità di optare per il regime della tassazione a livello di gruppo; possono detti contribuenti chiedere il rimborso o soltanto il risarcimento dei danni per violazione del diritto comunitario? In secondo luogo, supponendo che, in linea di principio, essi abbiano diritto di eperire un mezzo di ricorso, su quest'ultimo può incidere il fatto ch'esso si riferisce solo alla perdita di un'agevolazione in termini di liquidità di cassa, ossia agli interessi, in circostanze nelle quali gli importi ch'essi non hanno potuto utilizzare sono stati successivamente dedotti dalla loro CT base e, in particolare, tale questione va risolta in conformità delle norme procedurali nazionali applicabili?

42. Le ricorrenti fanno valere essenzialmente che la loro è una domanda di rimborso. Esse si basano su una giurisprudenza ben consolidata della Corte secondo cui gli Stati membri che hanno riscosso tributi in contrasto con norme di diritto comunitario aventi efficacia diretta devono rimborsarli; a loro parere, ciò discende dall'effetto diretto dei diritti sanciti dal diritto comunitario che sono stati in tal modo violati . Sebbene riconoscano che la Corte non ha ancora dovuto esaminare una domanda basata unicamente sugli interessi, esse ritengono che ammettere un'azione del genere costituirebbe una logica estensione di detta giurisprudenza; sarebbe inutile riconoscere loro la possibilità di far valere direttamente il diritto di stabilimento per poi non concedere loro successivamente alcun mezzo di ricorso. Per il caso in cui la loro azione non potesse essere qualificata come domanda di rimborso, in subordine esse affermano di avere diritto ad agire per il risarcimento dei danni per violazione del diritto comunitario, fondosi sui principi sanciti dalla giurisprudenza Francovich, ancorché il petitum sia costituito dagli interessi corrispondenti all'impossibilità contingente di utilizzare le somme versate a titolo dell'ACT . A tale proposito, esse affermano che nella sentenza Marshall II la Corte ha riconosciuto che il fatto di risarcire totalmente la perdita ed il danno subito a causa di una violazione del diritto comunitario non può trascurare l'effetto di fattori quali il decorso del tempo, e che il riconoscimento degli interessi può, in alcuni casi, costituire un elemento essenziale del risarcimento. Esse tengono distinta la sentenza Sutton, in cui, nell'ambito di una domanda relativa ad interessi su arretrati di prestazioni previdenziali, la Corte ha dichiarato che il diritto comunitario non attribuiva diritti al pagamento di interessi relativi ad una domanda di rimborso, in quanto il pagamento di interessi non era considerato un elemento essenziale del diritto in esame .

43. Il Regno Unito, sostenuto in sostanza dalla Finlandia, afferma che le ricorrenti, di fatto, sostengono che le autorità fiscali hanno una responsabilità extracontrattuale nei loro confronti; di conseguenza, la loro azione non presenta alcun nesso con le azioni per la ripetizione delle somme indebitamente versate o con le domande relative ad interessi su dette somme. Mentre il diritto al risarcimento è fondato direttamente sul diritto comunitario, spetta allo Stato interessato porre rimedio alle conseguenze del danno causato, conformemente al diritto nazionale applicabile in materia di responsabilità. In particolare, il Regno Unito si basa sulla sentenza Fromme per affermare che la questione se siano dovuti interessi su imposte riscosse in violazione del diritto comunitario è una questione di diritto nazionale . Il Regno Unito si fonda altresì sulla sentenza Sutton; esistono analogie tra una domanda avente ad oggetto gli interessi su una somma pagata in ritardo, assertivamente in violazione del diritto comunitario, come in quella causa, ed una domanda avente ad oggetto gli interessi su somme riscosse anticipamente, anche in questo caso in presunta violazione del diritto comunitario, come nella presente causa, in quanto entrambi i ricorsi hanno ad oggetto le conseguenze subite dal ricorrente per essere stato privato della possibilità di utilizzare una somma di denaro per un determinato periodo .

44. La Commissione afferma che una domanda come quella proposta dalle ricorrenti è per sua natura una domanda di rimborso. L'utilizzo anticipato del denaro ha costituito un vantaggio finanziario ottenuto illegittimamente dallo Stato membro, il cui importo può essere quantificato. La determinazione delle modalità precise secondo cui esso va quantificato spetta esclusivamente al giudice nazionale, ma le norme nazionali applicate non possono rendere inoperante il diritto conferito alle ricorrenti dal diritto comunitario. In subordine, la Commissione afferma che si perverrebbe alla stessa conclusione applicando a giurisprudenza Francovich e Brasserie du Pêcheur e Factortame.

45. La Corte ha costantemente dichiarato che gli Stati membri devono rimborsare le imposte riscosse in violazione del diritto comunitario e che il diritto a tale rimborso è la conseguenza ed il complemento dei diritti attribuiti ai singoli dalle disposizioni direttamente applicabili del diritto comunitario . Nella sua giurisprudenza più recente, la Corte ha aggiunto che gli Stati membri sono «tenut[i], in linea di principio, a rimborsare i tributi percepiti in violazione del diritto comunitario» . La nozione su cui si basa tale principio è che uno Stato membro non deve approfittare, e un singolo che abbia dovuto pagare un'imposta illegittima non deve subire una perdita, a causa di detta imposta. Tuttavia, la Corte ha anche riconosciuto che, in mancanza di una disciplina comunitaria armonizzata delle azioni di ripetizione dell'indebito, «spetta (...) all'ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme di diritto comunitario, purché le dette modalità, da un lato, non siano meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (principio di equivalenza) né, dall'altro, rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività)» .

46. Il Regno Unito afferma che la questione degli interessi rientra tra le materie procedurali disciplinate dal diritto nazionale. A suo parere, poiché in diritto britannico non esiste l'azione per il recupero degli interessi legati alla perdita dell'uso di somme in definitiva dedotte dalla CT dovuta dalla società che ha distribuito gli utili, il fatto di negare un mezzo di ricorso nella causa a qua non violerebbe il principio di non discriminazione. Tuttavia, qualora il giudice a quo accogliesse l'interpretazione del Regno Unito in merito all'applicabilità al ricorso di cui trattasi della regola confermata dalla House of Lords nella causa President of India, l'applicazione del principio dell'autonomia procedurale nazionale per le questioni connesse agli interessi si risolverebbe nel negare un rimedio ai contribuenti che, come le ricorrenti, hanno subito uno svantaggio in termini di liquidità per aver dovuto versare l'ACT . A mio parere, tale risultato sarebbe contrario al principio di effettività che è alla base della giurisprudenza della Corte relativa alla ripetizione delle imposte indebitamente versate.

47. Anche se la Corte non ha ancora avuto occasione di esaminare un ricorso interamente fondato su un lucro cessante, sono persuaso che, in linea di principio, il semplice fatto che tale lucro cessante consista solo nella perdita subita a causa della violazione temporanea del diritto comunitario non costituisce di per sé un motivo per negare la legittimità del ricorso. Sarebbe anomalo che un ricorso, il cui valore approssimativo è stato indicato dalle ricorrenti all'udienza in GBP 8 000 000, non possa essere proposto per il semplice fatto che la perdita in questione riguardava l'utilizzo temporaneo di somme il cui pagamento è stato successivamente reclamato a ragione dallo Stato membro interessato. A mio parere, poiché è indubbio che uno Stato membro possa, in linea di principio, essere tenuto pagare interessi su una somma in conto capitale illegittimamente riscossa in violazione del diritto comunitario, sebbene in applicazione di norme pertinenti del diritto nazionale, la logica conseguenza è che, qualora il ricorso di cui trattasi sia diretto interamente ad ottenere il pagamento di interessi, questi ultimi in linea di principio devono essere corrisposti. Una soluzione diversa equivarrebbe, molto semplicemente, a negare al contribuente interessato la possibilità di esercitare i diritti conferitigli da norme direttamente applicabili del diritto comunitario.

48. Questo parere trova conferma nelle sentenze Marshall II e Brasserie du Pêcheur e Factortame. Nella sentenza Marshall II, sebbene la Corte interpretasse una disposizione di una direttiva comunitaria, la sua applicazione del principio di effettività per quanto riguarda il risarcimento economico è comunque istruttiva. La Corte ha dichiarato che: «[q]ualora il provvedimento adottato per conseguire [un risarcimento effettivo per una discriminazione illegittima basata sul sesso] sia il risarcimento in denaro, esso deve essere adeguato, nel senso che deve consentire una integrale riparazione del danno effettivamente subito (...) sulla base delle pertinenti norme nazionali» . Inoltre, nella sentenza Brasserie du Pêcheur e Factortame, è degno di nota anche il fatto che la Corte abbia specificamente rilevato come «l'esclusione totale del lucro cessante dal danno risarcibile non può essere ammessa in caso di violazione del diritto comunitario. Invero, soprattutto in tema di controversie di natura economica o commerciale, una tale esclusione totale del lucro cessante si presta a rendere di fatto impossibile il risarcimento del danno». Lo stesso principio, a mio avviso, vale per un'azione per il pagamento di interessi basata sulla mancata disponibilità di una somma di denaro.

49. Non ritengo che tale parere sia infirmato dalla giurisprudenza della Corte relativa agli interessi. La Corte ha esaminato la questione degli interessi per la prima volta nella sentenza Roquette/Commissione . In detta causa, la ricorrente chiedeva gli interessi su determinati pagamenti (importi compensativi monetari) ch'essa aveva dovuto effettuare a favore dell'autorità nazionale competente, la quale operava in qualità di agente della Commissione, in forza di un regolamento successivamente dichiarato invalido . L'avvocato generale Trabucchi affermato dinanzi aveva alla Corte che «[i]l pagamento degli interessi afferenti a un capitale indebitamente pagato si pone in relazione di stretta accessorietà rispetto al diritto alla ripetizione del capitale (...) [L]a domanda relativa agli interessi è sottoposta agli stessi criteri affermati dalla giurisprudenza della Corte per quanto riguarda la ripetizione del capitale a cui questi si riferiscono» . La Corte ha accolto questo parere. Ha dichiarato che «[i]n mancanza di disposizioni comunitarie su questo punto, spetta attualmente alle autorità nazionali disciplinare, in caso di restituzione di tributi indebitamente percepiti, tutte le questioni accessorie relative a tale restituzione, quali l'eventuale versamento d'interessi» . Nella sentenza Express Dairy Foods, anch'essa relativa ad un'azione per il recupero di importi compensativi monetari versati in forza di un regolamento comunitario dichiarato poi invalido, la Corte ha dichiarato che, in mancanza di disposizioni comunitarie armonizzate, spettava ai giudici nazionali «risolvere tutte le questioni accessorie a detta restituzione, come il pagamento di interessi, applicando le norme interne relative al tasso e alla decorrenza degli stessi» . Questa giurisprudenza riguardava somme in conto capitale versate in forza di provvedimenti comunitari illegittimi, ma che erano state rimborsate alle ricorrenti. La questione se fossero dovuti anche gli interessi, come ha precisato la Corte, era «accessoria». Nella specie, come le ricorrenti hanno sottolineato all'udienza, la domanda relativa agli interessi costituisce la totalità del ricorso. Sebbene, anche nella sentenza Fromme, citata dal Regno Unito, la Corte abbia qualificato come accessorie le pretese relative agli interessi, detta causa può essere tenuta distinta dal caso in esame . Essa riguardava la domanda formulata dalle autorità tedesche affinché l'impresa Fromme corrispondesse gli interessi relativi a taluni premi di denaturazione dei cereali che le autorità tedesche, secondo il parere concorde delle parti, avevano versato erroneamente a detta impresa. La Corte ha dichiarato che l'obbligo incombente agli Stati membri in base alla normativa comunitaria applicabile consisteva nell'adottare «i provvedimenti necessari per recuperare le somme perse a seguito di irregolarità o di negligenze» ; pertanto, spettava al diritto nazionale disciplinare le «questioni accessorie», come quelle concernenti il pagamento di interessi, purché gli obblighi imposti alle imprese che avevano ricevuto pagamenti in base al diritto comunitario non fossero «meno favorevoli» di quelli imposti alle imprese nazionali che avevano ricevuto pagamenti in forza del diritto nazionale . A mio parere, questa giurisprudenza non conferma la tesi sostenuta dal Regno Unito, ossia che, anche in una causa avente ad oggetto unicamente gli interessi, la questione va risolta esclusivamente in base al diritto nazionale, indipendentemente dal fatto che le norme applicabili vietino o meno un ricorso basato esclusivamente sugli interessi.

50. Ritengo che neanche la sentenza Sutton avvalori la tesi del Regno Unito. Detta causa verteva su una domanda di pagamento di interessi su un importo percepito a titolo di arretrati di una specifica prestazione previdenziale, inizialmente negata per motivi che integravano una discriminazione basata sul sesso, contraria alla direttiva 79/7/CEE . La Corte ha dichiarato che il diritto garantito dall'art. 6 della direttiva alla vittima di una discriminazione del genere consisteva nell'«ottenere il pagamento delle prestazioni alle quali avrebbe avuto diritto in mancanza [di discriminazione]», ma che il pagamento di interessi su arretrati di prestazioni non costituiva una «componente essenziale del diritto così definito» . La Corte ha quindi accolto l'argomento dell'avvocato generale Léger, il quale, osservando che alla signora Sutton era stata concessa la prestazione richiesta, ha rilevato che «[l]a situazione discriminatoria [era stata già] soppressa, secondo le modalità dell'ordinamento giuridico interno, e si può ritenere che quest'ultimo abbia effettivamente garantito l'effettività del principio» . L'avvocato generale era dunque convinto che, in mancanza di disposizioni comunitarie, la questione se la ricorrente avesse diritto anche agli interessi doveva essere risolta dal giudice nazionale. In un caso come quello in esame, a mio parere, la situazione è diversa. Non solo la richiesta di interessi è essenziale, ma si tratta dell'unica pretesa delle ricorrenti. Ciò è dovuto al fatto che la violazione del diritto comunitario consiste interamente nella sottrazione di somme di denaro dalle risorse di alcune società. Se il diritto comunitario non imponesse di disapplicare le norme giuridiche nazionali che ostano a tali richieste, ciò produrrebbe il risultato di negare totalmente l'esercizio di un diritto derivante da un principio fondamentale del diritto comunitario. Tale conseguenza comprometterebbe l'effettività del diritto di stabilimento rendendo «praticamente impossibile» l'esercizio di tale diritto.

51. Ritengo che occorra respingere l'argomento del Regno Unito secondo cui le pretese delle ricorrenti nella causa a qua non possono essere qualificate come domande di rimborso per il semplice fatto che, poiché esse non hanno chiesto in giudizio di fruire del regime di tassazione a livello di gruppo, il ricorso dovrebbe essere considerato tutt'al più come analogo ad un'azione per il risarcimento dei danni nei confronti del Regno Unito per il danno ch'esse hanno subito a causa dell'incertezza in cui sono state lasciate per quanto riguarda i diritti loro conferiti dal diritto comunitario. L'ACT versata dalle ricorrenti è stata pagata in forza di una legislazione nazionale che non concedeva loro altra scelta. Poiché una legislazione del genere, a mio parere, non è compatibile con il diritto comunitario, esse in linea di principio devono essere autorizzate a chiedere il rimborso delle somme versate.

52. Ritengo che sia più equo e più logico trattare l'azione delle ricorrenti come una domanda di rimborso, piuttosto che come un'azione per il risarcimento dei danni. In base all'analisi che precede, l'ACT è stata riscossa a carico delle ricorrenti in violazione del diritto comunitario e, di conseguenza, in modo illegittimo. Nel periodo compreso tra il versamento dell'ACT e la sua imputazione a titolo della CT riscossa sulle controllate, il Regno Unito avrebbe dovuto rimborsare l'ACT alle ricorrenti. Se fosse stato possibile proporre un ricorso durante tale periodo, le ricorrenti avrebbero avuto diritto, a mio parere, agli interessi. Non è né logico né equo privarle di tale diritto per il semplice motivo che, nel frattempo, l'obbligazione del Regno Unito di rimborsare la somma richiesta in via principale si è estinta. Anche dal punto di vista pratico, la domanda relativa agli interessi è più simile ad una domanda di rimborso che ad un'azione per il risarcimento dei danni. Le somme oggetto della controversia sono note e non contestate. La sola cosa che deve fare il giudice a quo è stabilire un tasso d'interesse adeguato per il periodo di cui trattasi.

53. Qualora, tuttavia, non accogliesse il mio parere secondo cui dev'essere possibile proporre una domanda di rimborso degli interessi per la mancata disponibilità di una somma di denaro in circostanze come quelle di cui alla causa a qua, la Corte dovrebbe esaminare la richiesta in subordine delle ricorrenti, vale a dire che siano autorizzate a proporre un ricorso per il risarcimento dei danni dovuti per detta mancata disponibilità. Se è vero che nella citata giurisprudenza il danno assertivamente subito dalle ricorrenti normalmente non è stato quantificato in una somma di denaro, non vedo alcun motivo, in linea di principio, per cui non dovrebbe essere possibile chiedere il risarcimento dei danni a compensazione di una somma quantificabile, come nella specie, a condizione che siano soddisfatte le condizioni pertinenti. Il Regno Unito si basa sul fatto che, mentre le tre condizioni di base della potenziale responsabilità dello Stato membro sono indicate dalla giurisprudenza in materia, «spetta all'ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro fissare i criteri che consentono di determinare l'entità del risarcimento (...)» . A suo parere, in tale contesto rientra la questione degli interessi. Tuttavia, la Corte ha dichiarato altrettanto chiaramente che le norme di cui trattasi non devono essere discriminatorie e «non possono in nessun caso essere tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile il risarcimento» . Quest'ultimo principio implica, a mio parere, che un'azione diretta ad ottenere un risarcimento sotto forma di interessi per lo svantaggio in termini di liquidità causato dalla mancata disponibilità di denaro in linea di principio è consentita qualora si tratti dell'unico danno subito in conseguenza della violazione del diritto comunitario da parte di uno Stato membro.

54. Le tre condizioni che devono essere soddisfatte per poter dichiarare la responsabilità di uno Stato membro per violazione del diritto comunitario sono state costantemente confermate dalla Corte a partire dalla sentenza Francovich. Si tratta delle seguenti condizioni: «che la norma giuridica violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli, che la violazione sia grave e manifesta e che ricorra un nesso di causalità diretto tra la violazione dell'obbligo incombente allo Stato e il danno subito dai soggetti lesi» . Poiché non sono stare deferite questioni relative all'interpretazione di tali condizioni, e poiché spetta in ultima analisi al giudice nazionale accertare, in ciascun caso concreto, se esse siano soddisfatte, non propongo di esaminarle nel dettaglio. Tuttavia, considerato che ciò potrebbe fornire alcune indicazioni utili al giudice a quo, esaminerò brevemente l'argomento della Commissione secondo cui le suddette tre condizioni sono soddisfatte nel caso di specie.

55. In primo luogo, è indubbio che l'art. 52 del Trattato conferisce diritti ai singoli e che una violazione di tale norma soddisferebbe pertanto la prima condizione . In secondo luogo, mi sembra evidente che, in linea di principio, ricorre un nesso causale diretto tra l'esclusione dal regime d'imposizione a livello di gruppo, prevista dalla legge per le controllate le cui società capogruppo non sono stabilite nel Regno Unito, ed il danno subito dalle ricorrenti. Per quanto riguarda la natura della violazione, condivido l'affermazione della Commissione secondo cui il giudice a quo potrebbe nutrire dubbi circa il fatto che la violazione commessa dal Regno Unito costituisca una violazione grave e manifesta del diritto comunitario, tale da farne sorgere la responsabilità. Il Regno Unito fa valere che l'eventuale violazione del diritto comunitario era scusabile e che il danno eventualmente causato è stato involontario .

56. Poiché è del tutto escluso nella specie che le istituzioni comunitarie abbiano contribuito alla violazione del diritto comunitario di cui trattasi, la questione che il giudice a quo deve risolvere è se, nell'esercizio del suo potere normativo, il Regno Unito abbia «violato in modo manifesto e grave i limiti posti ai suoi poteri» . La questione è se la chiarezza e la precisione dell'art. 52 del Trattato CE fossero tali che la violazione possa essere considerata grave e manifesta. Occorre esaminare tale questione alla luce dell'utilizzo diffuso della residenza quale criterio per la tassazione diretta, congiuntamente al grado di sviluppo della giurisprudenza pertinente all'epoca dei fatti . Essa riguarda i limiti all'utilizzo di questo criterio da parte degli Stati membri allorché risulti svantaggioso per i residenti di altri Stati membri. In breve, il rifiuto di concedere il regime di imposizione a livello di gruppo, considerato oggettivamente, era scusabile o inescusabile ? Sebbene sia chiaro che provvedimenti che operano una discriminazione basata direttamente sulla nazionalità, non giustificate in base ad una delle eccezioni previste dallo stesso Trattato, andrebbero qualificati come «manifest[i] e grav[i]» , la presente causa verte su una discriminazione indiretta . In generale, la discriminazione indiretta dev'essere qualificata come «manifesta e grave». Come la Corte ha dichiarato già dal 1986 in materia di imposizione diretta, «[a]mmettere che lo Stato membro di stabilimento possa liberamente riservare un trattamento diverso per il solo fatto che la sede di una società si trova in un altro Stato membro svuoterebbe quindi di contenuto» gli artt. 52 e 58 del Trattato CE . Per quanto riguarda la possibile eccezione fondata sulla coerenza fiscale, il fatto che nella sentenza Bachmann la Corte abbia ammesso che una tale discriminazione indiretta possa essere giustificata da motivi connessi alla preservazione della coerenza fiscale, di per sé non rende scusabile la violazione del diritto comunitario. Per qualificare come scusabile una violazione dell'art. 52 del Trattato come quella qui in discussione, il giudice a quo dev'essere persuaso non solo del fatto che le autorità britanniche abbiano effettivamente ritenuto che rifiutare di estendere il beneficio del regime di imposizione a livello di gruppo ai gruppi facenti capo a una società non stabilita nel Regno Unito fosse strettamente necessario, ma anche che tale parere fosse obiettivamente ragionevole alla luce della sentenza Bachmann e del principio di interpretazione restrittiva delle eccezioni alle regole fondamentali del Trattato, quale la libertà di stabilimento. Il giudice a quo deve anche tenere presente l'importanza di garantire l'effettività dei diritti conferiti dal diritto comunitario, in particolare dei diritti fondamentali previsti dal Trattato.

V - Sulla terza e quarta questione, relative al credito d'imposta

57. Considerata la proposta che ho formulato per quanto riguarda la pretesa principale addotta nella causa a qua, non ritengo necessario esaminare le questioni estremamente complesse sollevate dalla domanda proposta in subordine, relativa all'eventuale diritto delle società capogruppo tedesche, per analogia con la convenzione sulla doppia imposizione tra Regno Unito e Paesi Bassi, ad un credito d'imposta parziale per l'ACT pagata dalle controllate britanniche.

Sulla quinta questione e sulle presunte omissioni delle ricorrenti

58. Poiché ritengo che la Corte debba dichiarare che il fatto di negare alle controllate di società capogruppo stabilite in un altro Stato membro la possibilità di optare per un regime di imposizione a livello di gruppo costituisca una discriminazione illegittima, in contrasto con l'art. 52 del Trattato CE, e che il semplice fatto che il danno assertivamente subito da dette controllate riguardasse il valore da attribuirsi alla mancata disponibilità temporanea delle somme di denaro versate a titolo di ACT non osta alla loro rivendicazione, occorre esaminare brevemente se il fatto che per molto tempo le ricorrenti non abbiano contestato tale rifiuto mediante i meccanismi d'impugnazione previsti dal diritto nazionale o, di fatto, mediante un ricorso giudiziario diretto anteriore a quello effettivamente proposto nella causa a qua, possa essere invocato dallo Stato membro convenuto per rifiutare o ridurre il risarcimento dei danni successivamente chiesto dalle ricorrenti con un ricorso basato sull'incompatibilità del diritto nazionale con il diritto comunitario. E' vero che la Corte ha ammesso che il fatto di non dare prova di una «ragionevole diligenza» per evitare il danno o limitarne l'entità, e in particolare di aver «tempestivamente esperito tutti i rimedi giuridici» disponibili, qualora regole analoghe fossero applicate nei procedimenti puramente nazionali, potrebbe essere preso in considerazione dal giudice nazionale per limitare ed eventualmente, in alcuni casi estremi, escludere la responsabilità dello Stato membro . A mio parere, uno Stato membro la cui legislazione ha determinato una disparità di trattamento a svantaggio dei non residenti, che non ammetteva alcuna eccezione e che avrebbe loro imposto, a pena di sanzioni, di continuare a pagare l'imposta in questione anche se la sua compatibilità con il diritto comunitario era stata contestata, non può, salvo in casi estremi, invocare il fatto che i contribuenti non hanno fatto ricorso ad un rimedio giuridico legittimo - che oltretutto, a suo stesso dire, non era applicabile nel loro caso - al fine di proporre un ricorso di diritto comunitario, o il fatto che esse non si siano basate sull'effetto diretto e sulla preminenza dell'art. 52 del Trattato CE, per limitare una successiva azione per il risarcimento dei danni basata sull'incompatibilità di tale legislazione con il diritto comunitario.

59. Tale conclusione riflette il principio fondamentale secondo cui uno Stato membro non può trarre profitto dai propri atti illeciti. Di conseguenza, esso non può insistere sull'applicazione delle sue regole nei confronti di contribuenti e, qualora poi dette regole si rivelino contrarie al diritto comunitario, rifiutare l'obbligo di risarcire i danni causati adducendo che tali regole non sono state impugnate tempestivamente. A mio parere, in casi come quello in esame - in cui i ricorrenti sostanzialmente si trovano dinanzi ad una norma nazionale non ambigua, da una parte, e all'eventuale diritto di opporsi all'applicazione di tale norma in forza del diritto comunitario, dall'altra, e in cui né la norma in questione né una norma analoga di un altro Stato membro siano state esaminate in precedenza dalla Corte - un ritardo da parte del ricorrente nella contestazione della norma nazionale di cui trattasi dev'essere preso in considerazione dal giudice a quo solo allorché esamina gli eventuali limiti del ricorso sul quale deve pronunciarsi, limiti che derivino dai termini di decadenza nazionali o da altre regole comparabili relative ad omissioni che si applicherebbero anche ad analoghi ricorsi basati esclusivamente sul diritto interno.

VIII - Conclusione

60. Alla luce delle suesposte considerazioni, propongo alla Corte di risolvere la prima, la seconda e la quinta questione sottopostele dalla High Court of Justice (England and Wales), Chancery Division, come segue:

«1) E' in contrasto con l'art. 52 del Trattato CE (divenuto, in seguito a modifica, art. 43 CE) il fatto che la normativa di uno Stato membro conceda un'agevolazione fiscale, quale il regime di imposizione a livello di gruppo (che consente ad una società controllata di pagare dividendi alla sua capogruppo senza essere soggetta all'imposta anticipata sui profitti delle società conseguiti in detto Stato membro), solo nel caso in cui la controllata e la capogruppo siano entrambe stabilite in detto Stato membro.

2) Qualora una società controllata la cui capogruppo non è stabilita nello Stato membro abbia dovuto effettuare pagamenti anticipati sull'imposta sulle società, mentre in analoghe circostanze le controllate di capogruppo stabilite nel territorio nazionale hanno potuto evitare tale obbligo optando per un regime di imposizione a livello di gruppo, l'effetto diretto dell'art. 52 del Trattato CE implica che dette società dispongano di un mezzo di ricorso idoneo, in linea di principio, ad ottenere la restituzione del vantaggio finanziario conseguito dalle autorità competenti dello Stato membro per effetto del pagamento anticipato dell'imposta da parte di tali controllate. Il semplice fatto che tale ricorso abbia ad oggetto solo gli interessi relativi al danno finanziario subito a causa della mancata disponibilità delle somme versate non può costituire di per sé un motivo per escludere il diritto del contribuente a proporre tale ricorso. Spetta al diritto nazionale disciplinare tutte le questioni accessorie, quali i termini di prescrizione ed il tasso d'interesse applicabile a queste domande. Tuttavia, tale disciplina non dev'essere più restrittiva di quella applicabile a ricorsi simili o comparabili, basati unicamente sul diritto nazionale e non devono rendere praticamente impossibile l'esercizio del diritto conferito dal diritto comunitario.

3) Uno Stato membro non può chiedere il rigetto di una domanda per il risarcimento dei danni, o la riduzione del relativo importo, per il fatto che, nonostante le norme nazionali che vietavano loro di procedere in tal modo, i contribuenti interessati avrebbero dovuto chiedere l'agevolazione fiscale di cui è causa esperendo tutti i mezzi di ricorso disponibili e/o basandosi sulla preminenza e sull'effetto diretto delle pertinenti disposizioni di diritto comunitario».