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Causa C-540/07

Commissione delle Comunità europee

contro

Repubblica italiana

«Inadempimento di uno Stato — Libera circolazione dei capitali — Art. 56 CE — Artt. 31 e 40 dell’Accordo SEE — Fiscalità diretta — Ritenuta alla fonte sui dividendi in uscita — Imputazione presso la sede del beneficiario del dividendo, in forza di una convenzione contro la doppia imposizione»

Massime della sentenza

1.        Libera circolazione dei capitali — Restrizioni — Normativa tributaria — Imposta sulle società — Tassazione dei dividendi

(Art. 56, n. 1, CE)

2.        Accordi internazionali — Accordo che istituisce lo Spazio economico europeo — Libertà di stabilimento — Libera circolazione dei capitali — Restrizioni — Normativa tributaria — Imposta sulle società — Tassazione dei dividendi

(Accordo SEE, artt. 31 e 40)

1.        Viene meno agli obblighi che gli incombono in forza dell’art. 56, n. 1, CE uno Stato membro che assoggetta i dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri ad un regime fiscale meno favorevole di quello applicato ai dividendi distribuiti alle società residenti, esentando dalla tassazione, fino al 95%, i dividendi distribuiti a società residenti e assoggettando i dividendi distribuiti a società non residenti ad una ritenuta alla fonte del 27%, potendosi peraltro ottenere, su domanda, un rimborso di una parte di tale somma.

Infatti, una differenza di trattamento di questo tipo non può essere rimessa in discussione a causa dell’applicazione delle convenzioni contro la doppia imposizione. È certamente vero che non può escludersi che uno Stato membro garantisca il rispetto dei suoi obblighi derivanti dal Trattato stipulando una convenzione contro la doppia imposizione con un altro Stato membro. È tuttavia necessario che l’applicazione della convenzione contro la doppia imposizione permetta di compensare gli effetti della differenza di trattamento derivante dalla normativa nazionale. Infatti, solo nell’ipotesi in cui l’imposta trattenuta alla fonte, in applicazione della normativa nazionale, possa essere detratta dall’imposta, dovuta nell’altro Stato membro, per un ammontare pari alla differenza di trattamento derivante dalla normativa nazionale la differenza di trattamento tra i dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri e i dividendi distribuiti alle società residenti scompare totalmente. Poiché tale imputazione sull’imposta dovuta nell’altro Stato membro non è garantita dalla normativa nazionale in oggetto e la scelta di tassare, nell’altro Stato membro, i redditi provenienti dallo Stato membro di cui trattasi o il livello di tale tassazione non dipende da quest’ultimo, ma dalle modalità di tassazione definite dall’altro Stato membro, l’imputazione dell’imposta ritenuta alla fonte sull’imposta dovuta nell’altro Stato membro, in applicazione delle previsioni delle convenzioni contro la doppia imposizione, non consente in tutti i casi di compensare la differenza di trattamento derivante dall’applicazione della normativa nazionale.

Tale differenza di trattamento non è neppure rimessa in discussione in ragione del fatto che si dovrebbe tener conto del complesso del sistema di tassazione nazionale, che avrebbe lo scopo di assicurare in modo diretto o indiretto la tassazione delle persone fisiche beneficiarie finali dei dividendi e, in particolare, della circostanza che la persona fisica residente ed azionista è assoggettata all’imposta personale sui suoi redditi, cosicché il livello di tassazione tra l’azionista persona fisica residente e l’azionista non residente sarebbe in realtà equivalente. Infatti, ciò equivale a comparare regimi e situazioni non comparabili, cioè, da un lato, persone fisiche beneficiarie di dividendi domestici e il loro regime di tassazione dei redditi e, dall’altro, società di capitali beneficiarie di dividendi in uscita e la ritenuta alla fonte prelevata dallo Stato membro interessato. A tale riguardo, è irrilevante la circostanza secondo la quale la normativa di quest’ultimo Stato sarebbe diretta a correggere un eventuale squilibrio a livello di tassazione delle persone fisiche che detengono partecipazioni nelle società a cui i dividendi sono versati.

Orbene, una differenza di trattamento di questo tipo può dissuadere le società stabilite in altri Stati membri dall’effettuare investimenti nello Stato membro di cui trattasi e costituisce, di conseguenza, una restrizione alla libera circolazione dei capitali vietata, in linea di principio, dall’art. 56, n. 1, CE.

È vero che, riguardo ai provvedimenti adottati da uno Stato membro al fine di prevenire o attenuare l’imposizione a catena ovvero la doppia imposizione economica sugli utili distribuiti da una società residente, gli azionisti beneficiari residenti non si trovano necessariamente in una situazione analoga a quella di azionisti beneficiari che risiedono in un altro Stato membro. Tuttavia, a partire dal momento in cui uno Stato membro, in modo unilaterale o per via di accordi, assoggetta all’imposta sui redditi non soltanto gli azionisti residenti, ma anche gli azionisti non residenti, per i dividendi che essi percepiscono da una società residente, la situazione di tali azionisti non residenti si avvicina a quella degli azionisti residenti. Infatti, l’esercizio da parte di questo stesso Stato della sua competenza tributaria genera in quanto tale, indipendentemente da ogni imposizione in un altro Stato membro, un rischio di imposizione a catena o di doppia imposizione economica. In un caso siffatto, affinché i beneficiari non residenti non si trovino di fronte ad una limitazione della libera circolazione dei capitali vietata, in via di principio, dall’art. 56 CE, lo Stato di residenza della società distributrice deve vigilare affinché, in relazione alla procedura prevista dal suo diritto nazionale allo scopo di prevenire o attenuare l’imposizione a catena o la doppia imposizione economica, i non residenti siano assoggettati ad un trattamento equivalente a quello di cui beneficiano i residenti. Quindi, quando tale Stato ha scelto di esercitare la sua competenza fiscale sui dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri, i non residenti beneficiari di tali dividendi si trovano in una situazione analoga a quella dei residenti per quanto riguarda il rischio di doppia imposizione economica dei dividendi distribuiti dalle società residenti, per cui i beneficiari non residenti non possono essere trattati diversamente dai beneficiari residenti.

Il trattamento meno favorevole illustrato non può essere giustificato dalla necessità di assicurare la coerenza del sistema tributario o il mantenimento di una distribuzione equilibrata del potere impositivo. Non può inoltre essere giustificato con riferimento alla lotta alla frode fiscale. Infatti, tale giustificazione è ammissibile solamente qualora essa abbia ad oggetto costruzioni puramente artificiose, aventi lo scopo di aggirare la legge fiscale, il che esclude qualsiasi presunzione generale di frode. Orbene, è in modo generale che tutti i dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri sono assoggettati ad un regime fiscale meno favorevole. Del resto, la direttiva 77/799, relativa alla reciproca assistenza fra le autorità competenti degli Stati membri nel settore delle imposte dirette e indirette, può essere invocata dallo Stato membro per ottenere, da parte delle competenti autorità di un altro Stato membro, ogni informazione necessaria a consentirgli di determinare correttamente l’ammontare delle imposte rientranti nell’ambito applicativo della citata direttiva.

Il trattamento meno favorevole cui la normativa nazionale in oggetto assoggetta i dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri costituisce, di conseguenza, una restrizione alla libera circolazione dei capitali incompatibile con l’art. 56, n. 1, CE.

(v. punti 32, 36-40, 42-45, 51-54, 56, 58-61, 64, dispositivo 1)

2.        Non viene meno agli obblighi che gli incombono in forza degli artt. 31 e 40 dell’Accordo sullo Spazio economico europeo (SEE) uno Stato membro che assoggetta i dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati del SEE ad un regime fiscale meno favorevole di quello applicato ai dividendi distribuiti alle società residenti, esentando dall’imposizione, fino al 95%, i dividendi distribuiti a società residenti e assoggettando i dividendi distribuiti a società non residenti ad una ritenuta alla fonte del 27%, potendosi peraltro ottenere, su domanda, un rimborso di una parte di tale somma.

Vero è che il trattamento meno favorevole a cui la normativa nazionale in oggetto assoggetta i dividendi distribuiti a società stabilite negli Stati parti dell’Accordo SEE costituisce una restrizione alla libera circolazione dei capitali ai sensi dell’art. 40 dell’Accordo SEE nonché alla libertà di stabilimento garantita dall’art. 31 del medesimo accordo.

Tuttavia, tale restrizione è giustificata dal motivo imperativo di interesse generale che attiene alla lotta contro la frode fiscale. Infatti, i principi relativi alle restrizioni all’esercizio delle libertà di circolazione in seno alla Comunità non possono essere integralmente applicati ai movimenti di capitali tra gli Stati membri e gli Stati terzi, in quanto tali movimenti si collocano in un contesto giuridico diverso. A tale proposito, il quadro di cooperazione tra le autorità competenti degli Stati membri stabilito dalla direttiva 77/799, relativa alla reciproca assistenza delle autorità competenti degli Stati membri nel campo delle imposte dirette e indirette, non esiste tra queste ultime e le autorità competenti di uno Stato terzo qualora esso non abbia assunto alcun impegno di reciproca assistenza. In mancanza di qualsiasi dispositivo di scambio di informazioni con uno Stato parte dell’Accordo SEE, e allorché le convenzioni contro la doppia imposizione firmate con altri Stati parti dell’Accordo SEE non prevedono l’obbligo di fornire informazioni, la normativa nazionale in oggetto deve considerarsi giustificata nei confronti degli Stati parti dell’Accordo SEE per il motivo imperativo di interesse generale relativo alla lotta contro la frode fiscale, nonché idonea a garantire la realizzazione di detto obiettivo, senza eccedere quanto necessario per conseguirlo.

(v. punti 67-72, 74-75)







SENTENZA DELLA CORTE (Seconda Sezione)

19 novembre 2009 (*)

«Inadempimento di uno Stato – Libera circolazione dei capitali – Art. 56 CE – Artt. 31 e 40 dell’Accordo SEE – Fiscalità diretta – Ritenuta alla fonte sui dividendi in uscita – Imputazione presso la sede del beneficiario del dividendo, in forza di una convenzione contro la doppia imposizione»

Nella causa C-540/07,

avente ad oggetto il ricorso per inadempimento, ai sensi dell’art. 226 CE, proposto il 30 novembre 2007,

Commissione delle Comunità europee, rappresentata dai sigg. R. Lyal e A. Aresu, in qualità di agenti, con domicilio eletto in Lussemburgo,

ricorrente,

contro

Repubblica italiana, rappresentata dal sig. R. Adam, in qualità di agente, assistito dal sig. P. Gentili, avvocato dello Stato, con domicilio eletto in Lussemburgo,

convenuta,

LA CORTE (Seconda Sezione),

composta dal sig. J.-C. Bonichot (relatore), presidente della Quarta Sezione, facente funzione di presidente della Seconda Sezione, dalla sig.ra C. Toader, dai sigg. C.W.A. Timmermans, K. Schiemann e P. Kūris, giudici,

avvocato generale: sig.ra J. Kokott

cancelliere: sig. R. Grass

vista la fase scritta del procedimento,

sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 16 luglio 2009,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

1        Con il presente ricorso, la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di dichiarare che la Repubblica italiana, avendo mantenuto in vigore un regime fiscale più oneroso per i dividendi distribuiti a società stabilite negli altri Stati membri e negli Stati aderenti all’Accordo sullo Spazio economico europeo 2 maggio 1992 (GU 1994, L 1, pag. 3; in prosieguo: l’«Accordo SEE») rispetto a quello applicato ai dividendi domestici, è venuta meno agli obblighi impostile dagli artt. 56 CE e 40 dell’Accordo SEE per quanto riguarda la libera circolazione dei capitali tra gli Stati membri e tra gli Stati aderenti all’Accordo in questione, nonché agli obblighi di cui all’art. 31 dello stesso Accordo in relazione alla libertà di stabilimento tra gli Stati aderenti a tale Accordo.

 Contesto normativo

 L’Accordo SEE

2        L’art. 6 dell’Accordo SEE dispone quanto segue:

«Fatti salvi futuri sviluppi [giurisprudenziali], le disposizioni del presente accordo, nella misura in cui sono identiche nella sostanza alle corrispondenti norme del Trattato che istituisce la Comunità economica europea e del Trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio e degli atti adottati in applicazione di questi due Trattati, devono essere interpretate, nella loro attuazione ed applicazione, in conformità delle pertinenti sentenze pronunciate dalla Corte di giustizia delle Comunità europee prima della data della firma del presente accordo».

3        L’art. 31, n. 1, dell’Accordo SEE è così redatto:

«Nel quadro delle disposizioni del presente accordo, non sussistono restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro della [Comunità europea] o di uno Stato dell’[Associazione europea di libero scambio (EFTA)] nel territorio di un altro di questi Stati. Parimenti non sussistono restrizioni all’apertura di agenzie, succursali o filiali da parte dei cittadini di uno Stato membro della [Comunità] o di uno Stato EFTA, stabiliti sul territorio di un altro di questi Stati.

La libertà di stabilimento comporta l’accesso ad attività di lavoro autonomo e il loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società ai sensi dell’articolo 34, [secondo] comma, alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposizioni del capo 4».

4        L’art. 40 dell’Accordo SEE dispone a sua volta quanto segue:

«Nel quadro delle disposizioni del presente accordo, non sussistono fra le Parti contraenti restrizioni ai movimenti di capitali appartenenti a persone residenti negli Stati membri della [Comunità] o negli Stati EFTA né discriminazioni di trattamento fondate sulla nazionalità o sulla residenza delle parti o sul luogo del collocamento dei capitali. L’allegato XII contiene le disposizioni necessarie ai fini dell’applicazione del presente articolo».

 La normativa comunitaria

5        L’art. 3, n. 1, della direttiva del Consiglio 23 luglio 1990, 90/435/CEE, concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi (GU L 225, pag. 6), come modificata dalla direttiva del Consiglio 22 dicembre 2003, 2003/123/CE (GU 2004, L 7, pag. 41; in prosieguo: la «direttiva 90/435»), dispone quanto segue:

«(...)

a)      la qualità di società madre è riconosciuta almeno ad ogni società di uno Stato membro che soddisfi le condizioni di cui all’articolo 2 e che detenga una partecipazione minima del 20% nel capitale di una società di un altro Stato membro che soddisfi le medesime condizioni.

Siffatta qualità è anche riconosciuta, alle stesse condizioni, ad una società di uno Stato membro che detenga nel capitale di una società dello stesso Stato membro una partecipazione minima del 20%, parzialmente o totalmente attraverso una stabile organizzazione della prima società situata in un altro Stato membro.

(...)».

6        A termini dell’art. 4, n. 1, della direttiva 90/435:

«Quando una società madre o la sua stabile organizzazione, in virtù del rapporto di partecipazione tra la società madre e la sua società figlia, riceve utili distribuiti in occasione diversa dalla liquidazione della società figlia, lo Stato della società madre e lo Stato della sua stabile organizzazione:

–        si astengono dal sottoporre tali utili ad imposizione, o

–        li sottopongono ad imposizione, autorizzando però detta società madre o la sua stabile organizzazione a dedurre dalla sua imposta la frazione dell’imposta societaria relativa ai suddetti utili e pagata dalla società figlia e da una sua sub-affiliata, a condizione che a ciascun livello la società e la sua sub-affiliata soddisfino i requisiti di cui agli articoli 2 e 3 entro i limiti dell’ammontare dell’imposta corrispondente dovuta».

7        L’art. 5, n. 1, della direttiva 90/435 così dispone:

«Gli utili distribuiti da una società figlia alla sua società madre sono esenti dalla ritenuta alla fonte».

 La normativa nazionale

 Il regime dei dividendi domestici

8        Il regime italiano d’imposizione fiscale dei dividendi domestici versati a società ed enti commerciali soggetti in Italia all’imposta sul reddito delle società risulta dal decreto legislativo 12 dicembre 2003, n. 344, recante riforma dell’imposizione sul reddito delle società, a norma dell’articolo 4 della legge 7 aprile 2003, n. 80 (Supplemento ordinario alla GURI n. 291 del 16 dicembre 2003), entrato in vigore il 1° gennaio 2005.

9        In seguito a tale riforma, il regime in parola è disciplinato dall’art. 89, intitolato «Dividendi ed interessi», secondo comma, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, che così recita:

«Gli utili distribuiti, in qualsiasi forma e sotto qualsiasi denominazione, anche nei casi di cui all’articolo 47, comma 7, dalle società ed enti di cui all’articolo 73, comma l, lettere a) e b), non concorrono a formare il reddito dell’esercizio in cui sono percepiti in quanto esclusi dalla formazione del reddito della società o dell’ente ricevente per il 95 per cento del loro ammontare».

10      Ai sensi dell’art. 73, primo comma, lett. a) e b), del detto testo unico:

«Sono soggetti all’imposta sul reddito delle società:

a)      le società per azioni e in accomandita per azioni, le società a responsabilità limitata, le società cooperative e le società di mutua assicurazione residenti nel territorio dello Stato;

b)      gli enti pubblici e privati diversi dalle società, residenti nel territorio dello Stato, ch[e] hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali».

 Il regime dei dividendi in uscita

11      L’art. 27, intitolato «Ritenuta sui dividendi», terzo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, recante disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi, così dispone:

«La ritenuta è operata a titolo d’imposta e con l’aliquota del 27 per cento sugli utili corrisposti a soggetti non residenti nel territorio dello Stato. L’aliquota della ritenuta è ridotta al 12,50 per cento per gli utili pagati ad azionisti di risparmio. I soggetti non residenti, diversi dagli azionisti di risparmio, hanno diritto al rimborso, fino a concorrenza dei quattro noni della ritenuta, dell’imposta che dimostrino di aver pagato all’estero in via definitiva sugli stessi utili mediante certificazione del competente ufficio fiscale dello Stato estero».

12      L’art. 27 bis di tale decreto prevede il rimborso o, a determinate condizioni, la disapplicazione della ritenuta prevista dall’art. 27 nel caso di società residenti in uno degli Stati membri che posseggano i requisiti relativi al livello di partecipazione nel capitale della società distributrice e di durata della partecipazione stessa previsti dalla direttiva 90/435.

 Procedura precontenziosa

13      La Commissione, considerando il regime fiscale dei dividendi di provenienza italiana distribuiti a società stabilite in un altro Stato membro o in uno Stato aderente all’Accordo SEE incompatibile con la libera circolazione dei capitali e con la libertà di stabilimento, ha deciso di avviare la procedura prevista all’art. 226 CE e ha diffidato la Repubblica italiana con lettera del 18 ottobre 2005.

14      Non convinta dagli argomenti esposti dalla Repubblica italiana nella sua lettera del 9 febbraio 2006, la Commissione, con lettera datata 4 luglio 2006, ha trasmesso a tale Stato membro un parere motivato, invitandolo ad adottare le misure necessarie per adeguarsi a tale parere entro il termine di due mesi dal ricevimento del medesimo.

15      La Repubblica italiana ha risposto al parere motivato con lettera del 30 gennaio 2007. La Commissione, ritenendo che tale Stato membro non avesse posto fine all’infrazione addebitatagli, ha deciso di proporre il presente ricorso.

 Sul ricorso

 Sulla ricevibilità

16      La Repubblica italiana sostiene che il ricorso è irricevibile perché non sarebbe sufficientemente preciso nell’oggetto. La Commissione si sarebbe limitata ad accostare diversi testi legislativi, constatando che essi prevedono ritenute sui dividendi in uscita superiori al livello di tassazione previsto per i dividendi distribuiti a società stabilite in Italia, senza procedere ad un’analisi precisa e completa di ciascuna di tali normative e senza provare in modo specifico l’incompatibilità di ciascuna di esse con i principi a cui fa riferimento.

17      Si deve ricordare, a questo proposito, che l’art. 38, n. 1, lett. c), del regolamento di procedura prevede che il ricorso debba contenere, tra l’altro, l’oggetto della controversia e l’esposizione sommaria dei motivi invocati. Di conseguenza, spetta alla Commissione, in ogni ricorso depositato ai sensi dell’art. 226 CE, indicare in modo sufficientemente coerente e preciso le censure dedotte, così da consentire allo Stato membro di preparare la propria difesa e alla Corte di verificare l’esistenza dell’inadempimento addotto (v., in tal senso, sentenze 13 dicembre 1990, causa C-347/88, Commissione/Grecia, Racc. pag. I-4747, punto 28, e 4 maggio 2006, causa C-98/04, Commissione/Regno Unito, Racc. pag. I-4003, punto 18).

18      Nella fattispecie, risulta in modo sufficientemente chiaro e preciso dalla motivazione e dalle conclusioni del ricorso della Commissione che quest’ultimo riguarda la compatibilità con i principi della libera circolazione dei capitali e della libertà di stabilimento della differenza tra il regime fiscale dei dividendi distribuiti a residenti italiani e quello dei dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri o in Stati aderenti all’Accordo SEE.

19      Poiché il ricorso è privo di ambiguità occorre respingere l’eccezione di irricevibilità sollevata dalla Repubblica italiana.

 Nel merito

 Argomenti delle parti

20      La Commissione afferma, in sostanza, che i dividendi versati alle società stabilite in altri Stati membri o negli Stati aderenti all’Accordo SEE sono trattati in modo meno favorevole di quelli versati alle società residenti in Italia. Ciò scoraggerebbe gli investimenti in società stabilite in Italia da parte di società stabilite in altri Stati membri o in Stati aderenti all’Accordo SEE e, in tal modo, costituirebbe un ostacolo alla libera circolazione dei capitali.

21      Poiché la direttiva 90/435 non è applicabile alle società stabilite negli Stati aderenti all’Accordo SEE, e in considerazione del fatto che il regime fiscale italiano dei dividendi in uscita riguarda anche le partecipazioni di controllo su società italiane detenute da società stabilite negli Stati aderenti all’Accordo SEE, la Commissione sostiene che sia altresì violato l’art. 31 dell’Accordo SEE, che vieta in modo analogo alle disposizioni corrispondenti del Trattato CE qualsiasi restrizione alla libertà di stabilimento.

22      La Repubblica italiana sostiene che la circostanza di esentare dalle imposte i dividendi domestici, ma di assoggettare ad una ritenuta i dividendi in uscita a destinazione di altri Stati membri, non è necessariamente e in ogni caso contraria al diritto comunitario. L’incompatibilità con il diritto comunitario potrebbe essere dichiarata solo nella situazione concreta in cui, a seguito dall’applicazione delle disposizioni della convenzione bilaterale contro le doppie imposizioni, la società dell’altro Stato membro che percepisce i dividendi non fosse in grado di eliminare nello Stato membro in cui si trova la sua sede la doppia imposizione, per esempio imputando sul proprio reddito imponibile a livello nazionale la ritenuta applicata nello Stato membro della società che ha distribuito i dividendi. Così, nell’ipotesi in cui la convenzione bilaterale contro le doppie imposizioni preveda, nello Stato membro di destinazione, un meccanismo di imputazione in tale Stato della ritenuta applicata nello Stato membro della fonte, la Repubblica italiana ritiene che non possa esservi discriminazione contraria all’art. 56 CE. Le clausole di imputazione previste da tali convenzioni bilaterali corrisponderebbero al potere di cui dispongono gli Stati membri di condividere la loro competenza in materia fiscale.

23      A tale proposito, la Commissione non fornirebbe la prova del fatto che nessuna delle convenzioni bilaterali concluse dalla Repubblica italiana consenta di eliminare l’impatto della ritenuta applicata in tale Stato membro.

24      La Repubblica italiana sostiene altresì che il trattamento fiscale dei dividendi in uscita deve essere valutato con riferimento all’integralità del sistema di imposizione dei dividendi distribuiti a beneficiari all’interno di tale Stato membro. In quest’ultimo caso, la distribuzione di un dividendo ad un azionista persona fisica, residente in Italia, è assoggettata ad un’imposta. L’esenzione del 95% dei dividendi percepiti dai contribuenti costituirebbe semplicemente uno stadio preparatorio alla tassazione degli azionisti persone fisiche. Nell’ipotesi in cui l’azionista sia una società non residente, che distribuirà di norma i dividendi a persone fisiche non residenti, non vi sarebbe tassazione delle persone fisiche. La società non residente verrebbe maggiormente tassata, sostiene la Repubblica Italiana, per tener conto del fatto che il livello di imposizione sui profitti delle società deve essere coerente con quello previsto per le persone fisiche. In tal modo, il livello di tassazione tra l’azionista persona fisica residente e l’azionista non residente sarebbe equivalente.

25      La Repubblica italiana sostiene in subordine che la disparità di trattamento sarebbe giustificata dalla differenza di situazioni, che consiste nel fatto che le società non residenti non hanno alcun obbligo di comunicare al fisco italiano la presenza, nel capitale di tali società, di persone fisiche residenti in Italia.

26      Anche supponendo, prosegue la Repubblica italiana, che le situazioni non siano diverse, la discriminazione sarebbe giustificata dalle esigenze di coerenza del sistema tributario nonché dalla necessità di prevenire la frode o l’evasione fiscale.

27      La Repubblica italiana sostiene infine che la Commissione non potrebbe comunque rimproverarle di non aver anticipato l’evoluzione della giurisprudenza della Corte e le sentenze 14 dicembre 2006, causa C-170/05, Denkavit Internationaal e Denkavit France (Racc. pag. I-11949), e 8 novembre 2007, causa C-379/05, Amurta (Racc. pag. I-9569), pronunciate dopo la scadenza del termine assegnatole dal parere motivato.

 Giudizio della Corte

–       Sulla violazione dell’art. 56, n. 1, CE

28      Si deve rammentare preliminarmente che, se è pur vero che la materia delle imposte dirette rientra nella competenza degli Stati membri, questi ultimi devono tuttavia esercitare tale competenza nel rispetto del diritto comunitario (v., in particolare, sentenza 13 dicembre 2005, causa C-446/03, Marks & Spencer, Racc. pag. I-10837, punto 29).

29      Infatti, in mancanza di disposizioni di unificazione o di armonizzazione comunitaria, gli Stati membri rimangono competenti a definire, in via convenzionale o unilaterale, i criteri di ripartizione del loro potere impositivo, in particolare, al fine di eliminare le doppie imposizioni (sentenze 12 maggio 1998, causa C-336/96, Gilly, Racc. pag. I-2793, punti 24 e 30, nonché 7 settembre 2006, causa C-470/04, N, Racc. pag. I-7409, punto 44).

30      La direttiva 90/435 mira ad eliminare, instaurando un regime fiscale comune, qualsiasi penalizzazione della cooperazione tra società di Stati membri diversi rispetto alla cooperazione tra società di uno stesso Stato membro ed a facilitare così il raggruppamento di società su scala comunitaria (sentenza 12 dicembre 2006, causa C-446/04, Test Claimants in the FII Group Litigation, Racc. pag. I-11753, punto 103).

31      Per partecipazioni non rientranti nella direttiva 90/435 spetta agli Stati membri determinare se, ed in quale misura, la doppia imposizione economica degli utili distribuiti debba essere evitata e introdurre, a tale scopo, in modo unilaterale o mediante convenzioni concluse con altri Stati membri, procedure che mirino a prevenire o ad attenuare tale doppia imposizione economica. Tuttavia tale unico fatto non consente loro di applicare misure contrarie alle libertà di circolazione garantite dal Trattato CE (v., in tal senso, sentenza 12 dicembre 2006, causa C-374/04, Test Claimants in Class IV of the ACT Group Litigation, Racc. pag. I-11673, punto 54).

32      Nella fattispecie, la legislazione italiana esenta dall’imposizione, fino al 95%, i dividendi distribuiti a società residenti, e assoggetta il restante 5% all’aliquota normale dell’imposta sui redditi delle società, pari al 33%. I dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri sono assoggettati ad una ritenuta alla fonte del 27%. Su domanda, peraltro, è possibile ottenere un rimborso fino a un massimo di quattro noni di tale imposta. Una ritenuta alla fonte a tasso ridotto può anche essere applicata, in forza delle previsioni delle diverse convenzioni preventive contro la doppia imposizione, quando sono soddisfatti taluni requisiti di partecipazione e di durata della partecipazione, ma tale tasso rimane superiore a quello imposto ai dividendi distribuiti alle società residenti.

33      È in definitiva pacifico che la normativa italiana assoggetti i dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri ad un tasso d’imposizione superiore a quello applicato ai dividendi distribuiti alle società residenti.

34      La Repubblica italiana sostiene tuttavia che tale differenza di trattamento sarebbe solo apparente, poiché si dovrebbe tener conto, da un lato, delle convenzioni contro la doppia imposizione e, dall’altro, del complesso del sistema tributario italiano.

35      In ordine al primo punto, la Repubblica italiana sostiene che i dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri non sarebbero in realtà trattati diversamente dai dividendi distribuiti a società residenti, in quanto le convenzioni contro la doppia imposizione permetterebbero di detrarre l’imposta trattenuta alla fonte in Italia da quella dovuta nell’altro Stato membro.

36      A questo proposito, la Corte ha in effetti dichiarato che non può escludersi che uno Stato membro garantisca il rispetto dei suoi obblighi derivanti dal Trattato stipulando una convenzione contro la doppia imposizione con un altro Stato membro (v., in tal senso, citate sentenze Test Claimants in Class IV of the ACT Group Litigation, punto 71, e Amurta, punto 79).

37      A tal fine è tuttavia necessario che l’applicazione della convenzione contro la doppia imposizione permetta di compensare gli effetti della differenza di trattamento derivante dalla normativa nazionale. Infatti, solo nell’ipotesi in cui l’imposta trattenuta alla fonte, in applicazione della normativa nazionale, possa essere detratta dall’imposta, dovuta nell’altro Stato membro, per un ammontare pari alla differenza di trattamento derivante dalla normativa nazionale la differenza di trattamento tra i dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri e i dividendi distribuiti alle società residenti scompare totalmente.

38      Nel caso di specie, occorre constatare che tale imputazione sull’imposta dovuta nell’altro Stato membro dell’imposta trattenuta alla fonte in Italia non è garantita dalla normativa italiana. Infatti, l’imputazione presuppone segnatamente che i dividendi provenienti dall’Italia siano sufficientemente tassati nell’altro Stato membro. Come ha giustamente rilevato l’avvocato generale ai paragrafi 58 e 59 delle sue conclusioni, se tali dividendi non sono tassati o se non lo sono a sufficienza, la somma ritenuta alla fonte in Italia o una frazione di essa non può essere detratta. In tal caso la differenza di trattamento derivante dall’applicazione della normativa nazionale non può essere compensata dall’applicazione delle previsioni della convenzione contro la doppia imposizione.

39      Orbene, la scelta di tassare nell’altro Stato membro i redditi provenienti dall’Italia o il livello a cui sono tassati non dipende dalla Repubblica italiana, ma dalle modalità di imposizione definite dall’altro Stato membro. La Repubblica italiana non ha, di conseguenza, alcun fondamento nel sostenere che l’imputazione dell’imposta ritenuta alla fonte in Italia sull’imposta dovuta nell’altro Stato membro, in applicazione delle previsioni delle convenzioni contro la doppia imposizione, consenta in ogni caso di compensare la differenza di trattamento derivante dall’applicazione della normativa nazionale.

40      Ne consegue che la Repubblica italiana non può sostenere che, a causa dell’applicazione delle convenzioni contro la doppia imposizione, i dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri non siano, in definitiva, trattati diversamente dai dividendi distribuiti alle società residenti.

41      D’altra parte, la Repubblica italiana ha affermato nel corso del procedimento di non aver concluso una convenzione contro la doppia imposizione con la Slovenia. La sua argomentazione non può quindi comunque essere accolta per quanto riguarda i dividendi distribuiti a società stabilite in Slovenia.

42      Per quanto riguarda il secondo punto, la Repubblica italiana non può neppure sostenere che la differenza di trattamento rilevata al punto 33 della presente sentenza non esista, in quanto si dovrebbe tener conto del complesso del sistema di tassazione italiano, che avrebbe lo scopo di assicurare in modo diretto o indiretto la tassazione delle persone fisiche beneficiarie finali dei dividendi e, in particolare, della circostanza che la persona fisica residente ed azionista è assoggettata all’imposta personale sui suoi redditi, cosicché il livello di tassazione tra l’azionista persona fisica residente e l’azionista non residente sarebbe in realtà equivalente.

43      Infatti, per respingere tale argomento è sufficiente rilevare che esso equivale a comparare regimi e situazioni non comparabili, cioè, da un lato, persone fisiche beneficiarie di dividendi domestici e il loro regime di tassazione dei redditi e, dall’altro, società di capitali beneficiarie di dividendi in uscita e la ritenuta alla fonte prelevata dalla Repubblica italiana. A tale riguardo, è irrilevante la circostanza secondo la quale la normativa italiana sarebbe diretta, secondo la Repubblica italiana, a correggere un eventuale squilibrio a livello di tassazione delle persone fisiche che detengono partecipazioni nelle società a cui i dividendi sono versati.

44      Tale Stato membro non può, di conseguenza, sostenere che non vi sia una differenza di trattamento tra le modalità di tassazione dei dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri e quelle dei dividendi distribuiti alle società residenti.

45      Orbene, una differenza di trattamento di questo tipo può dissuadere le società stabilite in altri Stati membri dall’effettuare investimenti in Italia. Essa costituisce, di conseguenza, una restrizione alla libera circolazione dei capitali vietata, in linea di principio, dall’art. 56, n. 1, CE.

46      Tuttavia, occorre esaminare se tale restrizione alla libera circolazione dei capitali possa essere giustificata con riferimento alle disposizioni del Trattato.

47      Conformemente all’art. 58, n. 1, CE, «[l]’articolo 56 non pregiudic[a] il diritto degli Stati membri (…) di applicare le pertinenti disposizioni della loro legislazione tributaria in cui si opera una distinzione tra i contribuenti che non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il loro luogo di residenza (…)».

48      La deroga prevista in tale disposizione è a sua volta limitata dall’art. 58, n. 3, CE, il quale stabilisce che le disposizioni nazionali di cui all’art. 58, n. 1, «non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al libero movimento dei capitali e dei pagamenti di cui all’articolo 56».

49      Le differenze di trattamento autorizzate dall’art. 58, n. 1, lett. a), CE devono essere pertanto distinte dalle discriminazioni vietate dall’art. 58, n. 3. Orbene, dalla giurisprudenza risulta che, perché una normativa tributaria nazionale, quale quella di cui alla causa principale, possa essere considerata compatibile con le disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione dei capitali, è necessario che la differenza di trattamento riguardi situazioni che non siano oggettivamente paragonabili o sia giustificata da motivi imperativi di interesse generale (v. sentenze 6 giugno 2000, causa C-35/98, Verkooijen, Racc. pag. I-4071, punto 43; 7 settembre 2004, causa C-319/02, Manninen, Racc. pag. I-7477, punto 29, e 8 settembre 2005, causa C-512/03, Blanckaert, Racc. pag. I-7685, punto 42).

50      Di conseguenza, si deve verificare se, con riferimento all’obiettivo della normativa nazionale di cui trattasi, le società beneficiarie di dividendi residenti in Italia e quelle stabilite in un altro Stato membro si trovino o meno in situazioni analoghe.

51      La Corte ha già dichiarato che, riguardo ai provvedimenti adottati da uno Stato membro al fine di prevenire o attenuare l’imposizione a catena ovvero la doppia imposizione sugli utili distribuiti da una società residente, gli azionisti beneficiari residenti non si trovano necessariamente in una situazione analoga a quella di azionisti beneficiari che risiedono in un altro Stato membro (sentenza Denkavit Internationaal e Denkavit France, cit., punto 34).

52      Tuttavia, a partire dal momento in cui uno Stato membro, in modo unilaterale o per via di accordi, assoggetta all’imposta sui redditi non soltanto gli azionisti residenti, ma anche gli azionisti non residenti, per i dividendi che essi percepiscono da una società residente, la situazione di tali azionisti non residenti si avvicina a quella degli azionisti residenti (citate sentenze Test Claimants in Class IV of the ACT Group Litigation, punto 68; Denkavit Internationaal e Denkavit France, punto 35, nonché Amurta, punto 38).

53      Infatti, l’esercizio da parte di questo stesso Stato della sua competenza tributaria genera in quanto tale, indipendentemente da ogni imposizione in un altro Stato membro, un rischio di imposizione a catena o di doppia imposizione economica. In un caso siffatto, affinché le società beneficiarie non residenti non si trovino di fronte ad una limitazione della libera circolazione dei capitali vietata, in via di principio, dall’art. 56 CE, lo Stato di residenza della società distributrice deve vigilare affinché, in relazione alla procedura prevista dal suo diritto nazionale allo scopo di prevenire o attenuare l’imposizione a catena o la doppia imposizione economica, le società azioniste non residenti siano assoggettate ad un trattamento equivalente a quello di cui beneficiano le società azioniste residenti (v. citate sentenze Test Claimants in Class IV of the ACT Group Litigation, punto 70, nonché Amurta, punto 39).

54      Orbene, nella fattispecie occorre constatare che il legislatore italiano ha scelto di esercitare la sua competenza fiscale sui dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri. I non residenti beneficiari di tali dividendi si trovano, di conseguenza, in una situazione analoga a quella dei residenti per quanto riguarda il rischio di doppia imposizione economica dei dividendi distribuiti dalle società residenti, per cui i beneficiari non residenti non possono essere trattati diversamente dai beneficiari residenti.

55      A tale riguardo, la Repubblica italiana afferma che la differenza di trattamento sarebbe giustificata da motivi imperativi di interesse generale inerenti alla coerenza del sistema tributario, al mantenimento di una ripartizione equilibrata del potere impositivo e alla lotta contro la frode fiscale, motivi che la Corte ha effettivamente riconosciuto come idonei a giustificare tali differenze (v., in tal senso, sentenze Marks & Spencer, cit., punto 51; 15 maggio 2008, causa C-414/06, Lidl Belgium, Racc. pag. I-3601, punto 42, nonché, per quanto riguarda la giustificazione relativa alla coerenza del sistema tributario, sentenze 28 gennaio 1992, causa C-204/90, Bachmann, Racc. pag. I-249, punto 28, e 13 marzo 2007, causa C-524/04, Test Claimants in the Thin Cap Group Litigation, Racc. pag. I-2107, punto 68).

56      Quanto alla giustificazione relativa alla coerenza del sistema tributario e al mantenimento di una distribuzione equilibrata del potere impositivo, per respingerla è sufficiente rilevare che la Repubblica italiana riprende in sostanza gli argomenti esposti per difendere la tesi secondo cui la differenza di trattamento rilevata al punto 33 della presente sentenza non esisterebbe, in quanto bisognerebbe anche tener conto del fatto che gli azionisti persone fisiche residenti sono assoggettati in Italia all’imposta sui redditi. Per le ragioni esposte al punto 43 della presente sentenza, il suddetto argomento non può essere accolto.

57      Per quanto riguarda la giustificazione relativa alla lotta contro la frode fiscale, occorre ricordare che una restrizione alla libera circolazione dei capitali può essere ammessa a questo titolo solo a condizione che essa sia idonea a garantire il conseguimento dello scopo in tal modo perseguito e non ecceda quanto necessario per raggiungerlo (sentenze Marks & Spencer, cit., punto 35; 12 settembre 2006, causa C-196/04, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas, Racc. pag. I-7995, punto 47, nonché Test Claimants in the Thin Cap Group Litigation, cit., punto 64).

58      Una giustificazione basata sulla lotta alla frode fiscale è quindi ammissibile solamente qualora essa abbia ad oggetto costruzioni puramente artificiose, aventi lo scopo di aggirare la legge fiscale, il che esclude qualsiasi presunzione generale di frode. Pertanto, una presunzione generale di evasione o di frode fiscale non può essere sufficiente per giustificare una misura fiscale che pregiudichi gli obiettivi del Trattato (v., in tal senso, sentenze 26 settembre 2000, causa C-478/98, Commissione/Belgio, Racc. pag. I-7587, punto 45, nonché Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas, cit., punto 50 e giurisprudenza ivi citata).

59      Orbene, nella fattispecie, tutti i dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri sono assoggettati, in modo generale, ad un regime fiscale meno favorevole. Tale trattamento meno favorevole non può, pertanto, essere giustificato con riferimento alla lotta contro la frode fiscale.

60      Del resto, la direttiva del Consiglio 19 dicembre 1977, 77/799/CEE, relativa alla reciproca assistenza fra le autorità competenti degli Stati membri nel settore delle imposte dirette e indirette (GU L 336, pag. 15), come modificata con direttiva del Consiglio 25 febbraio 1992, 92/12/CEE (GU L 76, pag. 1; in prosieguo: la «direttiva 77/799»), può essere invocata da uno Stato membro per ottenere, da parte delle competenti autorità di un altro Stato membro, ogni informazione necessaria a consentirgli di determinare correttamente l’ammontare delle imposte rientranti nell’ambito applicativo della citata direttiva (v. sentenza Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas, cit., punto 71).

61      Il trattamento meno favorevole cui la normativa italiana assoggetta i dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri costituisce, di conseguenza, una restrizione alla libera circolazione dei capitali incompatibile con l’art. 56, n. 1, CE.

62      Infine, la Repubblica italiana non può sostenere che il ricorso per inadempimento dovrebbe comunque essere respinto in quanto l’incompatibilità della sua normativa con l’art. 56, n. 1, CE risulterebbe dall’interpretazione che la Corte di giustizia ha dato di tale articolo nelle sentenze emesse su rinvio pregiudiziale in data successiva a quella del parere motivato nella presente causa.

63      Infatti, l’interpretazione che la Corte, nell’esercizio della competenza attribuitale dall’art. 234 CE, fornisce di una norma di diritto comunitario chiarisce e precisa il significato e la portata della norma stessa, quale deve o avrebbe dovuto essere intesa ed applicata sin dal momento della sua entrata in vigore (v., in tal senso, sentenza 27 marzo 1980, causa 61/79, Denkavit italiana, Racc. pag. 1205, punto 16), a meno che la Corte non abbia limitato per il passato la possibilità di invocare la disposizione così interpretata (v., in tal senso, sentenza Denkavit italiana, cit., punto 17).

64      Da tutte le considerazioni che precedono risulta che la Repubblica italiana, avendo assoggettato i dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri ad un regime fiscale meno favorevole di quello applicato ai dividendi distribuiti alle società residenti, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 56, n. 1, CE.

–       Sulla violazione dell’Accordo SEE

65      Uno degli obiettivi principali dell’Accordo SEE è di realizzare nella massima misura possibile la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali nell’intero Spazio economico europeo (SEE), di modo che il mercato interno realizzato nel territorio della Comunità sia esteso agli Stati dell’EFTA. In questa prospettiva, diverse convenzioni aventi ad oggetto detto Accordo mirano a garantire un’interpretazione dello stesso che sia la più uniforme possibile nell’insieme del SEE (v. parere 10 aprile 1992, 1/92, Racc. pag. I-2821). Spetta alla Corte, in tale ambito, controllare che le norme dell’Accordo SEE identiche nella sostanza a quelle del Trattato siano interpretate in maniera uniforme all’interno degli Stati membri (sentenza 23 settembre 2003, causa C-452/01, Ospelt e Schlössle Weissenberg, Racc. pag. I-9743, punto 29).

66      Ne risulta che, anche se restrizioni alla libera circolazione dei capitali tra cittadini di Stati parti dell’Accordo SEE devono essere esaminate con riferimento all’art. 40 e all’allegato XII a detto Accordo, tali pattuizioni rivestono la stessa portata giuridica delle disposizioni, sostanzialmente identiche, dell’art. 56 CE (v. sentenza 11 giugno 2009, causa C-521/07, Commissione/Paesi Bassi, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 33).

67      Pertanto, e per i motivi esposti in sede di esame del ricorso alla luce dell’art. 56, n. 1, CE, occorre considerare che il trattamento meno favorevole a cui la normativa italiana assoggetta i dividendi distribuiti a società stabilite negli Stati parti dell’Accordo SEE costituisce una restrizione alla libera circolazione dei capitali ai sensi dell’art. 40 dell’Accordo SEE.

68      Tuttavia, occorre constatare che tale restrizione è giustificata dal motivo imperativo di interesse generale che attiene alla lotta contro la frode fiscale.

69      Come già dichiarato dalla Corte, la giurisprudenza vertente su restrizioni all’esercizio delle libertà di circolazione in seno alla Comunità non può essere integralmente applicata ai movimenti di capitali tra gli Stati membri e i paesi terzi, in quanto tali movimenti si collocano in un contesto giuridico diverso (v., in tal senso, sentenza 18 dicembre 2007, causa C-101/05, A, Racc. pag. I-11531, punto 60).

70      Nella fattispecie, occorre anzitutto rilevare che il quadro di cooperazione tra le autorità competenti degli Stati membri stabilito dalla direttiva 77/799 non esiste tra queste ultime e le autorità competenti di uno Stato terzo qualora esso non abbia assunto alcun impegno di mutua assistenza.

71      La Repubblica italiana ha poi affermato, senza essere contraddetta, che non esiste alcun dispositivo di scambio di informazioni tra essa e il Principato del Liechtenstein. Infine, la Repubblica italiana ha sostenuto, senza essere contraddetta neanche in questa occasione, che le convenzioni contro la doppia imposizione che aveva firmato con la Repubblica d’Islanda e con il Regno di Norvegia non prevedono l’obbligo di fornire informazioni.

72      Pertanto, la normativa italiana in esame deve essere considerata giustificata riguardo agli Stati parti dell’Accordo SEE per il motivo imperativo di interesse generale riguardante la lotta contro la frode fiscale, nonché idonea a garantire la realizzazione di detto obiettivo senza eccedere quanto necessario per conseguirlo.

73      Il ricorso dev’essere pertanto respinto nella parte in cui verte sull’inadempimento, da parte della Repubblica italiana, degli obblighi che le incombono in forza dell’art. 40 dell’Accordo SEE.

74      La Commissione sostiene altresì che la normativa italiana configurerebbe una restrizione ingiustificata alla libertà di stabilimento garantita dall’art. 31 dell’Accordo SEE.

75      Tuttavia, e per i motivi sviluppati in relazione all’art. 40 dell’Accordo SEE, la normativa italiana di cui trattasi deve considerarsi giustificata nei confronti degli Stati parti dell’Accordo SEE per il motivo imperativo di interesse generale relativo alla lotta contro la frode fiscale, nonché idonea a garantire la realizzazione di detto obiettivo senza eccedere quando necessario per conseguirlo.

76      Il ricorso deve pertanto essere respinto anche nella parte in cui verte sull’inadempimento, da parte della Repubblica italiana, degli obblighi che le incombono in forza dell’art. 31 dell’Accordo SEE.

 Sulle spese

77      Ai sensi dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Ai sensi dell’art. 69, n. 3, dello stesso regolamento, se le parti soccombono rispettivamente su uno o più capi, ovvero per motivi eccezionali, la Corte può ripartire le spese o decidere che ciascuna parte sopporti le proprie spese.

78      Nella presente controversia occorre tener conto del fatto che talune censure della Commissione non sono state accolte.

79      Occorre quindi condannare la Repubblica italiana ai tre quarti della totalità delle spese. La Commissione è condannata a sopportare il restante quarto.

Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara e statuisce:

1)      La Repubblica italiana, avendo assoggettato i dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri ad un regime fiscale meno favorevole di quello applicato ai dividendi distribuiti alle società residenti, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 56, n. 1, CE.

2)      Per il resto, il ricorso è respinto.

3)      La Repubblica italiana è condannata a sopportare i tre quarti della totalità delle spese. La Commissione delle Comunità europee è condannata a sopportare il restante quarto.

Firme


* Lingua processuale: l’italiano.